di Franco Pezzini

PaoloDeCrescenzo.JPG Lui probabilmente sta ridendo dei miei tentativi di mettere insieme le frasi per questo pezzo, visto che le parole mi si attorcigliano dentro. Ma ride affettuoso, un po’ burbero, ironico come al solito.
Paolo De Crescenzo ha chiuso gli occhi a sessantasei anni, dopo una lotta durissima contro un mostro sortogli da qualche parte nel profondo. Una lotta che l’aveva infine spinto ad abbandonare il timone della casa editrice fondata pochi anni (ma tanti libri) prima, Gargoyle: impossibile continuare a battersi su quel fronte — terapie, malesseri, astenie — e insieme su quello della grande crisi economica sopraggiunta, che su un piccolo editore può battere pesante fino a sfondare. Ma solo chi lo conosceva sa l’eroismo — uso il termine conscio del suo peso — che la passione di Paolo nutriva, e che l’ha spinto a resistere in casa editrice fino allo stremo delle energie.


Paolo era un editore anomalo, anche per le esperienze in settori diversi. Nato a Roma (1947) aveva accumulato direzioni in vari campi, in particolare nella produzione cinematografica e televisiva: e per la Lux Vide di Ettore Bernabei aveva prodotto una miniserie, Il bacio di Dracula, 2001, in cui vincendo la diffidenza di Rai Uno regalava una scampagnata — riuscita, intelligente — nelle letture amate.
Infatti Paolo amava l’horror. Lo amava a tal punto da azzardare poco dopo, 2005, ciò che a tanti appariva una follia, cioè fondare una casa editrice che all’horror (di qualità) fosse votata. Fondarla in un’Italia dove per vendere horror i responsabili di catalogo lo chiamano noir e thriller, e se ne vergognano come di scelta sconcia o — peggio — fuori moda. In un’Italia dove un genere non conciliatorio come l’horror — perché di solito, se è “buono”, ti lascia alla fine qualche inquietudine e come un grattare alla finestra — è giudicato dalle varie agenzie di maggioranza come di scarso interesse, anzi potenzialmente criminogeno e magari segno di pericolose derive interiori. In un’Italia dove rischiare in materia di generi è visto come atto folle o piuttosto stupido: i generi — secondo almeno i guru dell’editoria — devono servire ad andare sul sicuro, schemi testati, fatturato garantito.
Intendiamoci, la necessità del fatturato a Paolo era chiara. La sua Gargoyle era un’impresa, non un’istituzione benefica, e lui ha sempre badato a garantire lo stipendio a chi lavorava al suo fianco: ma la sua ottica era strategica, non tattica. Ovvio, i testi editati erano di diverso spessore, dai classici gotici dell’Ottocento (uno per tutti e bellissimo, Lo zio Silas di Le Fanu) ad altri più popolari, ma senza mai inseguire le pietanze facili e modaiole, il “romanticismo sexy” di vampiri adolescenti e bellocci in fregola, le copie di copie dal pubblico sicuro. Irrompevano così tra le mani dei lettori italiani autori di statura internazionale da noi mai o mal proposti come Robert McCammon e Joseph Nassise, J.G. Passarella e Caitlin R. Kiernan, Graham Masterton e Dan Simmons, Chelsea Quinn Yarbro e Jack Ketchum — con sapori per tutti i gusti, dal mostro classico all’orrore sociale più urticante. Riemergevano opere sfiziose altrimenti introvabili, come i bestseller della vittoriana Marie Corelli, il raffinato e torbido Il morso sul collo di Simon Raven, l’incredibile lanterna magica Io credo nei vampiri di Emilio de’ Rossignoli, alcuni deliziosi pastiche sherlockiani e nientemeno che il leggendario e diluviale Varney — un recupero di straordinario coraggio e impegno che dovrebbe intrigare chiunque in Italia abbia a cuore la letteratura fantastica o popolare in genere (e invece qualche critico superficialotto ha archiviato come tediosa stramberia). Fino a proporre, con un ulteriore atto di coraggio, autori italiani: perché ciò che Paolo mirava a costruire era una sorta di casa comune dell’horror, cercando interlocutori che fossero tali e coinvolgendoli attraverso il commissionamento di prefazioni (talora veri e propri saggi brevi), di volumi saggistici, e ovviamente di romanzi e racconti. Il catalogo enumera dunque nomi noti come Danilo Arona e Gianfranco Manfredi, ma anche novizi dell’horror come Riccardo D’Anna, esordienti della forma romanzo come Andrea G. Colombo e Francesco Dimitri, e l’esordiente assoluto Claudio Vergnani la cui (magnifica) trilogia vampiresca otterrà grande successo di pubblico. Il Gotha del gotico veniva messo in condizione di rapportarsi, incontrarsi a volte fisicamente e comunque di sognare insieme: grazie a Paolo veniva voglia di scrivere, nascevano amicizie, si varavano ricerche (a volte surreali, a volte importanti — sempre belle). Lui stesso, del resto, continuava a cercare: l’uomo che aveva intrattenuto in dialogo Vincent Price e Stephen King non si accontentava del clamore da sovraccoperta e inseguiva piste mai scontate.
Ancora: se per troppo tempo è stata allegra abitudine in Italia proporre romanzi horror senza le “parti inutili” (perché a un lettore horror cosa può interessare lo stile?) Paolo editava i testi in versione completa, filologica, permettendo di rendersi conto dello spessore letterario di opere prima sconciate. A completare il quadro era la qualità grafica — dalla carta al tipo di legatura — per cui i libri dovevano leggersi bene ed essere suscettibili di conservazione; e persino il blog Gargoyle era ricco di saggi e interventi di grosso interesse, cosa niente affatto scontata per la vetrina online di un piccolo editore.
In Italia un trattamento del genere l’horror non l’aveva mai avuto. Non vi erano abituati gli appassionati, increduli di tanta ricchezza; ma di fronte a simili volumi anche gli agnostici (chiamiamoli così) potevano ricredersi sul valore di un genere, scoprirne declinazioni inattese e sorprendenti. E se tutto ciò aveva un prezzo e un’impresa impiega anni ad ammortizzare i costi, anche le scelte più avventurose del catalogo trovavano senso nell’ampio progetto di Paolo. Del resto c’era un’ottima squadra — per un nome tra tutti cito Costanza Ciminelli, straordinaria ufficio stampa — e la quantità di lavoro macinato era impressionante. Il catalogo del (giustamente festeggiato) quinto anniversario, 2010, conta già cinquantadue titoli.
Certo, non renderei giustizia a Paolo idealizzando il tutto — in una piccola casa editrice i problemi ci sono — ma quella breve stagione ha rappresentato un’esperienza editoriale che flirtava con l’incredibile. E se con Paolo si poteva discutere anche in modo vivace — uomo di forte carattere, colto, pieno di idee, sapeva cosa gli piaceva e cosa no (anche se era capace di tornare, se convinto, sulle decisioni prese perché non era dogmatico) — una sua grande dote era saper conciliare sogno e concretezza: se c’era un problema, con lui la soluzione alla fine la trovavi.
Paolo sapeva che il mostro può sempre riemergere. Ci era abituato, lui che di mostri aveva letto libri e visto film innumerevoli. Sapeva che Peter Cushing — un attore per cui aveva particolare amore — negli ultimi anni considerava sorridendo il paradosso di aver combattuto vampiri ed extraterrestri e di trovarsi alla fine un povero vecchietto malato di tumore. Paolo era un buon giocatore, e accettava il rischio in termini di buon senso e coraggio. Ma non poteva immaginare che il mostro sarebbe riemerso dal profondo del suo corpo poco prima di una crisi economica planetaria: a quel punto non c’è storia. Ha combattuto su due fronti finché è riuscito, poi ha dovuto cedere.
Uscito Paolo (2011), la Gargoyle ha annunciato un nuovo corso: e la storia di quella trasformazione, con l’esodo di gran parte degli autori italiani e un vivace dibattito sul web è cosa nota. Per carità, il nuovo catalogo è di tutto rispetto, e conta anche autori e titoli già scelti da Paolo — ma con una filosofia editoriale molto diversa. La “casa comune” dell’horror italiano, sostenuta da un tessuto di voci ma soprattutto da una persona carismatica e piena d’idee, si chiudeva con la sua dirigenza; e lui era troppo signore per diffondersi sull’amarezza di un simile epilogo, che gli scavava dentro.
Piegato dal male, Paolo riusciva ancora a occuparsi della piccola casa di distribuzione Jubal, mettendo a frutto le sue competenze (sconfinate) anche in altri generi: poliziesco, avventura, western. Vedevo proprio l’altro giorno uno dei film del catalogo, quel mix gentile di commedia e avventura che è Lisbon, 1956, con Ray Milland, Maureene O’Hara e Claude Rains — una pellicola che Paolo amava per la sua leggerezza e ironia vecchio stile.
In un impressionante e improvviso impoverimento del nostro panorama, Paolo ha chiuso gli occhi solo un giorno dopo un altro grandissimo del fantastico italiano, Riccardo Valla. Entrambi lasciano un vuoto che ci fa male, ma anche la ricchezza di un’eredità ideale e l’urgenza di non disperderla, contro miopie e scetticismi. Una forma di resistenza contro le narrative addomesticate, riunendo persone e facendole sognare, proponendo ricchezze dimenticate, lavorando su quel linguaggio delle paure — tale l’horror — che tanto ci dice del mondo in cui viviamo. E se ci manca l’amico (brillante, affettuoso, sensibile) con cui abbiamo lavorato, il far tesoro del suo insegnamento e dei suoi sogni è anche un modo di dirgli grazie.