di Sandro Moiso

rimbalzo.jpgPeter Freeman, Quello strano rimbalzo, manifestolibri 2012, pp.144, € 16,00

In attesa che passi la classica tempesta scatenata in un bicchier d’acqua dalla campagna elettorale, un buon modo per far trascorrere questi tempi di crisi è sempre quello di affidarsi ad una buona lettura.
Cosa c’è di meglio, quindi, di una storia in cui si parli di un viaggio agli antipodi, di fantasmi, di natura incontaminata, di coraggio e determinazione?

Quello di Peter Freeman, giornalista ed autore RAI, è, prima di tutto, un libro sul rugby e le sue storie oltre che la cronaca del campionato mondiale dello stesso sport giocatosi, nell’autunno del 2011, in Nuova Zelanda. Ma è anche il diario di un viaggio in territori che si vorrebbero ancora incontaminati e, allo stesso tempo, nella memoria dei rapporti tra i nativi Maori e i pakeha (bianchi) nel corso degli ultimi tre secoli e mezzo.

Esistono in Italia molti libri sul calcio (racconti, romanzi, cronache, storie e tante bufale per tifoserie arrapate), un po’ meno sul rugby, uno sport difficile da avvicinare per la complessità delle regole e ancora poco spendibile sul piano dei diritti televisivi. Ma se il calcio ha trovato nei racconti di Osvaldo Soriano, nelle cronache di Gianni Brera e nelle storie di Eduardo Galeano alcuni dei suoi punti di forza dal punto di vista letterario, il rugby non ha mai trovato in Italia degli equivalenti per la narrazione “appassionata” delle sue storie.


Quello strano rimbalzo potrebbe iniziare a rovesciare, almeno qui da noi, le sorti letterarie della palla ovale e delle storie ad essa collegate.
Esiste infatti una vasta letteratura sull’argomento nel mondo anglo-sassone di cui, però, poco o nulla è giunto alle nostre sponde. Ma, come rileva l’autore , il rugby è uno sport fortemente radicato in alcune aree del globo e, allo stesso tempo, difficilmente esportabile in altre, nonostante gli sforzi, spesso dannosi sul piano del gioco, di farlo diventare “globale”.

Alcune delle aree più importanti per quello sport coincidono infatti con il Regno Unito (Scozia, Inghilterra, Galles con l’aggiunta dell’ex-colonia Irlanda) o con aree dell’ex- Commonwealth Britannico (Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Fiji e Tonga). Insomma, tralasciando Francia e Italia, tra i primi venti posti dell’universo ovale (considerate anche Argentina, Romania e Georgia) non troviamo certo l’elenco del G-20.

C’è un evidente rimpianto, nel testo, per il rugby del passato, pre-professionistico. Uno sport intelligente, duro, leale e praticato da gente comune, che, tra una partita e l’altra, tra un allenamento e una cronaca sportiva, praticava altri mestieri. Operai, maestri di scuola e altri settori più o meno umili della società costituivano il nerbo delle squadre e delle tifoserie. Così una partita, come quella della squadra gallese di Llanelli sugli All Blacks neozelandesi del 31 ottobre 1972, poteva significare la chiusura anticipata delle fabbriche, degli uffici e dei negozi.

La vittoria della squadra gallese, 9 a 3, diede vita, nei versi di Max Boyce (“The day the pubs ran dry”), ad un’epica proletaria:
Oh, la birra affluì a Stradey, giù da Felinfoel
E le mani che alzavano i bicchieri erano rese forti dall’acciaio e dal carbone

Come annota Freeman “A lavorare il giorno dopo, un mercoledì, non andò quasi nessuno” (pag.120):
Poi si fece l’alba, sulle fabbriche vuote, ed eravamo ancora tutti a Stradey*,
assenteisti con gli occhi iniettati di sangue
ma avevamo tutti i nostri certificati medici e dicevano tutti la stessa cosa
che avevamo tutti la Scarlattina** e l’avevamo presa alla partita
” (Max Boyce, 9 — 3)

Le forzature della “globalizzazione” rugbystica hanno profondamente modificato lo spirito del gioco, che si è fatto più veloce e violento, ma ha perso in umanità e tensione emotiva.
E che ha contribuito a far sparire allenatori come il mitico Carwyn James che degli Scarlets era stato allenatore nel momento del trionfo e che chiuse poi la sua carriera come allenatore, in Italia, per la squadra del Rovigo. Al suo ritorno in Gran Bretagna avrebbe fatto ancora il cronista per la BBC, il giornalista, il politico, l’intellettuale, mentre alla sua morte, avvenuta a 53 anni il 10 gennaio 1983, “sui giornali britannici gli obituaries si presero più spazio che se fosse deceduto un primo ministro. Lo definirono filosofo, esteta, rugby man, insegnante, politico, bardo, intellettuale, studiosa e nessuno di questi termini sembrava fuori posto” (pag. 122).

E’ quello di Carwyn James uno dei fantasmi che si aggirano tra le pagine del libro, insieme a quelli di JohnTaylor e Keith Murdoch. Fantasmi, perché, anche nella stagione aurea il rugby, oltre che “proletario”, è stato uno sport dominato da una rigido tradizionalismo, destinato a sconfinare spesso nel moralismo e nell’emarginazione. Per James a causa della sua presunta omosessualità; per Taylor poiché ritenuto “comunista” a causa del suo ripetuto rifiuto di giocare contro gli Springbooks, la squadra sudafricana di rugby, al tempo dell’apartheid; per Murdoch che si esiliò volontariamente dal rugby e dalla Nuova Zelanda ossessionato dalle accuse che gli sarebbero state rivolte dalla stampa kiwi*** per alcune sue intemperanze dovute al consumo di alcolici.

Rigidità che nel primo conflitto mondiale aveva dato i suoi frutti.
Il rugby era uscito decimato dalla prima guerra mondiale. Sul fronte occidentale, nei macelli di Verdun e della Somme, erano morti ben centoventisei giocatori che avevano indossato le maglie della loro nazionale. Gli stati maggiori avevano giocato pesante con la loro gioventù. Il Secretary of State per la guerra, Lord Kitchener, era uomo di una certa creatività: aveva inventato i campi di concentramento durante la guerra anglo-boera del 1900 — e adesso poteva annunciare contento che i giocatori di rugby stavano facendo il loro dovere — […] più del 90 per cento si era arruolato. Il tributo di sangue era stato crudele” (pag. 67)

Freeman, in occasione della Coppa del Mondo di Rugby viaggia per quarantacinque giorni, in lungo e in largo, tra le due isole della Nuova Zelanda; ce ne descrive le caratteristiche geografiche e zoologiche e trova anche il tempo di scrivere pagine veramente emozionanti sulle partite giocate in quel periodo, da quelle iniziali a quelle delle semifinale e della finale.
E ci fa calare tra le aspettative dei tifosi neozelandesi bianchi e Maori. Tra quei Maori che, avendo assorbito in pieno il rugby come sport proprio, hanno dato agli All Blacks grandissimi giocatori e la Haka, l’impressionante danza di guerra e di sfida che precede ogni loro incontro e che, a sua volta, è divenuta patrimonio di tutti i neozelandesi, di ogni etnia e colore.

Il giudizio sul circo mediatico, economico e para-sportivo che circonda l’avvenimento è sempre duro, anche per le conseguenze che la scelta “professionistica” e spettacolare ha avuto, nel corso degli anni, sul gioco stesso:”E’ cambiato il gioco, ma non in meglio: senza offesa, il rugby di prima era molto più bello e affascinante di quello di adesso. Con quei personaggi saresti andato volentieri a berti una birra e la conversazione non sarebbe stata mai noiosa […] Gli idoli odierni hanno più muscoli e più velocità, mettono insieme pregevoli abilità che sono frutto di programmazione e fasi ripetute, ma gli manca il guizzo imprevedibile, il colpo di genio, la follia di chi, per il piacere del gioco, ha voglia di inventare qualcosa” (pag. 80)

rimbalzo 1.jpgE giunti al termine della lettura resterà nei lettori il senso di un’inguaribile perdita dell’innocenza, nel rugby e nella natura. Il grande rugby è scomparso come il mitico moa, l’uccello enorme che non sapeva e non poteva volare, che fu distrutto dagli uomini e dai mammiferi da essi introdotti in Nuova Zelanda già con l’arrivo dei Maori. Mentre il futuro sembra essere preannunciato soltanto dal disastro ecologico della nave porta container Rena che si schianta sulle scogliere davanti alla Bay of Plenty il 5 ottobre 2011, con l’inevitabile seguito di inquinamento e distruzione della fauna e dell’ambiente circostante a causa della fuoruscita di centinaia di tonnellate di carburante e della perdita di numerosissimi container.

Note

*Stradey Park, lo stadio dove si era giocata la partita

** Gioco di parole con Scarlets, il nome della squadra derivato dal colore (rosso) delle maglie dei giocatori

***Kiwi è parola maori usata per indicare una specie di uccelli autoctoni della Nuova Zelanda. Tale parola è stata però sfruttata per diversi usi:
– nome comune di uccelli appartenenti a diverse specie.
– pianta da frutto (Actinidia chinensis)
– nomignolo indicante la popolazione dei Neozelandesi.