di Franco Pezzini

GATTI1.jpgTra gli studiosi che in Italia hanno affrontato le provocazioni della teratologia sociale e i rapporti tra le sue espressioni artistiche e l’immaginario collettivo (comprese le concrete ricadute in termini di stereotipi e violenza), Fabio Giovannini ha certo un posto speciale. I suoi testi spesso pionieristici, le monografie rimaste di riferimento ancora col passare di decenni, persino le opere minori sempre curatissime, ricche di materiale raro e di spunti lucidi per ragionare sugli orrori latenti nella nostra società, meriterebbero all’uscita adeguate vetrine e comunque una più ampia circolazione. Doveroso quindi, anche e proprio per il titolo di questa testata, presentare la magnifica edizione del testo-chiave di Joseph Sheridan Le Fanu, intitolato per l’occasione Carmilla la Vampira, tradotto e curato da Giovannini per i tipi di Stampa alternativa (Grande Fiabesca, Viterbo 2011) con una preziosa appendice recante la traduzione integrale del Christabel di Coleridge — cui Carmilla si raccorda in termini di ispirazione — più una Vampireide di illustrazioni sulle eredi della Nostra. Se traduzioni eccellenti del romanzo lefanuiano non mancavano (resta classica quella con testo a fronte curata da Sandro Melani per Marsilio, 1999) qui troviamo non solo un opportuno raffronto con una delle fonti-madri, ma un ottimo tessuto di note e un ricchissimo commento, aggiornato agli ultimi studi pubblicati.
Onore dunque a Stampa alternativa per aver accolto in catalogo il volume: e varie sono le considerazioni ch’esso può richiamare. In questa sede mi soffermerei solo su due punti un po’ misteriosi, dei quali Giovannini discute da par suo, e che però restano oggetto di dibattito. Non misteri, certo, da togliere il sonno a un pubblico di lettori i cui occhi sbarrati possono avere più concreti motivi (e crediamo di sospettarne almeno qualcuno); ma di qualche rilevanza per chi, lavorando su un testo a buona ragione classico, sia interessato a comprendere ragioni e sogni dell’autore.


Un primo tema riguarda il luogo dove la storia si svolge, in sostanza la collocazione del castello in cui Carmilla insidia la narratrice Laura, e del villaggio in rovina poco distante con la tomba nascosta della vampira. Certo, sappiamo che è in Stiria, regione oggi divisa tra Austria e Slovenia ma all’epoca unita sotto gli Asburgo, e Le Fanu gioca sornione a dispensare criptici riferimenti geografici, con assonanze a toponimi (-berg, -burg, -dorf, -feld, -stein) del tutto comuni nell’area germanofona e anche in Stiria ben rappresentati. Si può obiettare che se Le Fanu lascia la collocazione nel vago, non ha troppo senso pretendere di individuarne una “credibile” sulla cartina — e indubbiamente si tratta di una geografia del fantastico che solo con forzature possiamo adattare alle coordinate di un atlante. Ciò premesso in termini generali, può tuttavia non essere senza significato indagare su riferimenti almeno virtuali: e non solo per l’indubbio piacere del gioco, ma perché la geografia del fantastico ha in fondo concreti legami con categorie e pregiudizi d’epoca, riferimenti a contesti storico-politici, miti (mai neutri) su popoli e culture. Come altrove spiegato, la scelta della Stiria quale emblematica terra di vampiri appare curiosa, visto che i resoconti più celebri di epidemie vampiriche non la menzionano, mentre il racconto di Le Fanu la avvicina tout court a regioni dalla ben più ricca documentazione in materia (cap. 15: Moravia, Slesia, Serbia turca, Polonia e Russia). A pensarci, anche se i repertori odierni tacciono ostinatamente su casi di vampirismo in Stiria, è credibile che storie di non-morti fossero effettivamente diffuse in una regione al confine tra i mondi germanico, ungherese, slavo e turco: ma è interessante notare che la recezione del dato dell’accentuata vampiricità della Stiria si basi essenzialmente, in Europa occidentale, sulla lettura di Carmilla. Legata alla fusione di due pregiudizi geografici — quello tedesco, degli antichi orrori gotici, e quello ungherese di esotismi romantici — la “Stiria dei vampiri” dei lettori di Le Fanu diverrà dunque un topos della geografia fantastica di fine Ottocento: Bram Stoker, immaginando una collocazione ideale per le gesta del suo succhiasangue, pensò inizialmente alla Stiria, e stiriana di Graz è la contessa Dolingen, vampira del racconto-frammento Dracula’s Guest (ne vedremo anzi la tomba in Dracula 3D di Dario Argento, anche se le iscrizioni che Stoker dice in tedesco — sulla porta del mausoleo — e cirillico qui sono riunite sul sepolcro e in latino);

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e ovviamente in Stiria si ambienta lo strano controcanto al testo lefanuiano a firma di Eric Stanislaus von Stenbock, The Sad Story of a Vampire, 1894, dove il conte ungherese Vardalek — altrettanto ovviamente un vampiro — seduce omosessualmente e conduce a morte il fratello della narratrice Carmela Wronski. Se poi, per il successo del Dracula, la Transilvania scalzerà la Stiria dal podio di terra per eccellenza dei vampiri (e in fondo dei mostri), ancora per molto tempo i commentatori continueranno a considerarla tale sic et simpliciter, senza mai incalzare i motivi della scelta di Le Fanu — ciò, almeno, fino a tempi recentissimi. Ancora in un film popolare come Season of the Witch (in Italia, mendacemente, L’ultimo dei templari — il protagonista è un ex-crociato che non c’entra niente con l’Ordine), 2011, l’improbabile saga di peste e stregonerie affrontata da un corrucciato Nicolas Cage è ambientata in Stiria, con una tappa a Maribor/Marburg.
Ma torniamo alla collocazione del castello dove vive la narratrice Laura. Per chi scrive resta interessante, alla luce delle distanze in leghe fornite da Le Fanu nel situare il castello (league, traduzione dell’austriaco postmeile, corrispondeva a circa 4,7 miglia inglesi), l’ipotesi di un set nelle Pohorje, l’area montuosa a ovest di Maribor, in Štajerska, la “Lower Styria” slovena: un’ipotesi formulata dallo studioso Bernard Davies, e che renderebbe ragione della considerevole distanza dai centri abitati su cui Le Fanu insiste all’inizio del racconto. Lavorando su qualche cartina dell’impero, l’autore irlandese potrebbe insomma aver scelto apposta uno spazio libero da toponimi, collocando lo Schloss nel cuore di quella terra desolata ma in realtà verdissima, a tutt’oggi scarsamente popolata. Vagheggiando inizialmente, come detto, un’ambientazione stiriana per il proprio romanzo più celebre, Stoker pare progettasse di far giungere Harker a Slovenska Bistrica proprio in Štajerska… L’odierna Slovenia doveva insomma risultare ai sudditi di Sua Maestà Britannica abbastanza selvaggia per un Hic sunt Vampyri, anche se poi nella categoria “stiriana” di Le Fanu si confondono identità culturali germaniche (il nome Karnstein), ungheresi (da un accenno, i Karnstein sembrano tali) ed evidentemente slave, a evocare le minacce di una geografia incerta, greve di ombre del passato. Sul possibile, intrigante rapporto tra il romanzo e la storia austroungarica vista come in allegoria, rinvio a Matthew Gibson, i cui recenti studi hanno contribuito a illuminare l’enigmatica genesi di Carmilla.
A tale collocazione nel Pohorje del castello di Laura, Giovannini preferisce quella dell’attuale confine tra Austria e Slovenia, dalle parti della cittadina di Spielfeld che richiama alcuni nomi del romanzo — una zona un po’ meno isolata di quella che ci si aspetterebbe dalle descrizioni, ma la distanza da Graz potrebbe corrispondere. Entrambe le collocazioni risultano comunque nell’area sud della Stiria (la vampirizzata Mircalla era amante del barone Vordenburg “originario dell’Alta Stiria”, ma ciò non significa che abitassero nella stessa zona); e quale che sia la “giusta” ambientazione, se davvero Le Fanu ne aveva in mente una, plausibilmente Maribor non è distante. Chi ai nostri giorni viaggi fin lì, godendosi il passeggio nella quieta cittadina, il lungofiume e il gelato alla birra, o comunque girando la campagna all’intorno, fatica a immaginare le antiche minacce di quest’area di confine.
Al di là di un maggiore o minore radicamento in un tessuto specificamente “sloveno”, proprio l’elemento-castello richiama però provocazioni suggestive. Si può senz’altro concordare sulla non credibilità storica di una derivazione del personaggio di Carmilla da quello di Barbara di Cilli (1392-1451), contessa stiriana/slovena assurta alla corona imperiale per il matrimonio con il titolare Sigismondo, fondatrice con lui dell’Ordine del Dragone contro Turchi e hussiti — da cui l’epiteto draghesco al suo membro più noto, il padre di Vlad (appunto) Dracula — e secondo certi giri esoterici richiamata dalla tomba dal marito con un rituale magico: donde la promozione a ipostasi femminile dello stesso Dracula e patrona dei misteri della non-morte. Nulla prova che Le Fanu conoscesse questa fantasiosa ricostruzione, che probabilmente rimonta a parecchi decenni (forse addirittura un secolo) dopo il romanzo, attraverso l’interpretazione abbinata di due passi di un famoso libro esoterico, la Magia sacra di Abramelin Mago, ed è ormai approdata al web — e comunque le due vampire avrebbero ben poco in comune. Ma se il Nostro si fosse documentato su possibili modelli per i Karnstein, la famiglia Cilli con le sue cupe storie e il drammatico epilogo (l’assassinio a Belgrado dell’inquieto Ulrico II, 1456) avrebbe avuto qualche possibilità di ispirarlo: e il grande castello ormai in rovina dei Cilli arroccato sopra l’attuale Celje in Štajerska può con un po’ di fantasia evocare il clima di Le Fanu. Arrivandoci in qualche momento libero da turisti (per esempio subito dopo un acquazzone, come avvenuto al sottoscritto) il posto è degno di un film Hammer.
Eppure ci sono altri castelli, non troppo distanti, che richiamano più plausibilmente al racconto. Del padre di Laura sappiamo che è inglese, ha un nome anglofono (Le Fanu non dice quale), è vedovo di una dama della Stiria (discendente da una vecchia famiglia ungherese — cioè, almeno per parte di madre, dai Karnstein) ed era stato alle dipendenze del governo asburgico: la pensione e il patrimonio gli hanno permesso l’acquisto dello Schloss e una piccola tenuta dove vive con la figlia diciannovenne e i dipendenti. Una famiglia, insomma, britannica-stiriana: e opportunamente Matthew Gibson ravvisa una fonte fondamentale nell’opera del capitano Basil Hall, Schloss Hainfeld; or a Winter in Lower Styria (London and Edinburgh, 1836), col resoconto del suo soggiorno presso la contessa stiriana Purgstall, all’anagrafe Jane Anne Cranstoun — nata in Scozia, amica di Sir Walter Scott e ispiratrice per la sua traduzione della Lenore di Bürger — dunque parimenti britannica-stiriana. Analizzando il memoriale di Hall, Gibson individua anzi una fitta serie di elementi ispiratori per il tessuto di Carmilla, a partire proprio dalla contessa potenziale modello (per motivi diversi) dei personaggi speculari di Carmilla e Laura. Se poi Schloss Hainfeld — nella Stiria austriaca — può apparire un po’ diverso da quello descritto da Laura, motivi testuali suggeriscono che per le rovine di Karnstein Le Fanu abbia tratto puntuale ispirazione da quelle di Gleichenberg, Riegersberg e Steinberg descritte da Hall. E anzi la presentazione del castello in rovina di Riegersberg — di proprietà dei Purgstall — come bastione di difesa antiottomana, in quella Stiria che Hall considera il punto più caldo del limes dell’impero, può far comprendere anche l’associazione lefanuiana tra Turchi e vampiri: entrambi, nel tardo Ottocento, considerabili minacce non-morte, come nell’immagine della “hideous black woman with a sort of coloured turban on her head” che annuisce, ghigna e stringe i denti nella carrozza su cui Carmilla giunge al castello.
Ma, a parte il caso della contessa Purgstall, esisteva almeno un’altra famiglia britannica-stiriana che avrebbe potuto interessare Le Fanu, cioè i conti di Herberstein e Leslie che abitavano il castello di Vurberk a sud est di Maribor. Tutto era partito col conte Walter Leslie, che in missione diplomatica a Istanbul, 1665-66, aveva raccolto un’invidiabile collezione di Turqueries; e quando i suoi nipoti, figli di un barone scozzese, si erano trasferiti in Stiria, a uno di essi, Jacob, toccò l’intera proprietà dello zio, dipinti compresi (mentre il fratello Alexander sposava a Graz nel 1682 Christine Crescentia contessa di Herberstein, per morire l’anno dopo sotto le mura di Vienna, solo tre settimane dopo la nascita del figlio). Della pinacoteca di Vurberk, via via incrementata con nuove commissioni, le Turqueries rappresentano forse la parte più interessante, e la principale raccolta europea sull’esotismo “all’ottomana”: e solo parecchio più tardi, nel 1907, saranno spostate nello scenografico castello di Ptuj, dove meritano senz’altro una gita. Una parte della collezione è stata anche esposta a Trieste, nell’ambito del ciclo di eventi I turchi in Europa (2006): e ne facevano parte ritratti di dignitari e parecchie figure femminili, idealizzazioni di donne dell’harem del sultano a firma di un pittore stiriano, databili almeno in parte al 1682. Fu la notizia di una celeberrima raccolta di quadri nel castello di una famiglia britannica-stiriana a ispirare a Le Fanu la storia dei ritratti fatti restaurare dal padre di Laura? In ogni caso quello di Mircalla Karnstein da lui descritto risale a fine Seicento (più precisamente al 1698, in coincidenza con un periodo di particolari ansie da non-morti) come quelli della raccolta Leslie con donne dell’harem dei vampireschi Ottomani.
GATTI3.jpgTra le Turqueries esposte a Trieste colpiva inoltre il ritratto di un kizlar agasi, capo delle guardie dell’harem, nero e col turbante: una figura ovviamente classica dell’amministrazione turca, e le cui rifrazioni nell’immaginario occidentale costelleranno arti figurative e letteratura per tutto l’Ottocento — basti pensare al racconto di Théophile Gautier, La morte amoureuse, 1836, dove un simile personaggio dal colorito scuro e vestito in modo esotico è al servizio della gentile vampira Clarimonde. Difficile dire se Le Fanu si sia ispirato a Gautier, trasformando il moro nella spiacevole “black woman” (se black, come sembra, è relativo al colore della pelle) intravista all’inizio sulla carrozza di Carmilla, e che potrebbe chiamarsi Matska — ma sul nome torneremo. D’altra parte, a fronte dell’immagine autoritaria della madre di Carmilla accompagnata da una simile megera moresca, si può pensare anche a un altro caposaldo della letteratura fantastica, quel Vathek dove, in un contesto più marcatamente orientale, l’altrettanto autoritaria madre del protagonista si accompagna a donne nere orride, mute e guerce: anzi il muto sogghignare della “black woman” di Le Fanu potrebbe suggerire una derivazione diretta. Se poi tra i paesi afflitti dalla credenza nei vampiri, l’autore irlandese cita — seguendo il trattatista Dom Calmet — la “Serbia turca”, è del tutto plausibile leggerlo con Giovannini come un ammiccamento proprio alla megera e alla sua terra di provenienza (è lei che ha infettato i Karnstein?). Sia come sia, le enigmatiche donne dell’harem celebrate nei ritratti della raccolta Leslie, e accompagnate dal loro silenzioso kizlar agasi, finiscono con lo sfumare nei volti dell’harem omoerotico delle vampire, la cui virtuale custode appare simile al collega per colore di pelle e copricapo. Non ci troviamo a Misteri, dunque è inutile forzare i nessi causa-effetto (immaginando per esempio Le Fanu ispirato da quel quadro): ma rimane la suggestione di un nesso ideale, di un gioco di immagini esotiche tra baedeker e travelogue ottocenteschi, rielaborate poi creativamente da un narratore geniale ed eccentrico che soffriva di brutti sogni.
Ma attraverso quel volto ghignante arriviamo al secondo punto di discussione: perché forse alla “black woman” si riferisce quel nome Matska su cui gli interpreti di Le Fanu si sono rotti la testa. Tutto parte da una domanda di Carmilla, dopo l’incidente in carrozza in realtà funzionale a farla entrare come ospite in casa di Laura. Siamo al capitolo III, e la giovane, riprendendo i sensi, domanda: “Dov’è mamma?” — la contessa madre è appunto ripartita con una scusa. Poi Carmilla torma a chiedere: “Dove sono? Cos’è questo posto? […] Non vedo la carrozza. E Matska dov’è?” (corsivo mio). Quest’ultima frase è ambigua: potrebbe trattarsi di una seconda domanda relativa alla madre, oppure — come altrove inteso — di una domanda sull’altra donna della carrozza, appunto la “black woman”, in qualche rapporto familiare con la ragazza. Lasciando la questione saggiamente aperta, Giovannini spiega in nota che “Matska” è un “Diminutivo slavo (oggi in bulgaro allude a ragazza di facili costumi, ma all’epoca non aveva significati ambigui)”. Gibson azzarda di più, ipotizzando un riferimento al polacco matka, cioè “madre” e insieme a una parola ungherese dalla stessa grafia, che significa “fidanzata”: i giochi di parole di Le Fanu condurrebbero in questo caso a ravvisare un possibile legame omoerotico tra madre e figlia — un’ipotesi interpretativa non nuova, ma che troverebbe in tal modo sostegno.
Esiste però una diversa interpretazione possibile, almeno altrettanto intrigante e che non esclude necessariamente le altre: e riconduce a una costellazione di termini dell’Europa orientale significanti “gatta”, particolarmente il bulgaro machka o matska e lo sloveno mačka. In sembianze di gatto mostruoso, in effetti, Carmilla apparirà nell’incubo di Laura al capitolo sesto, con una certo distacco dalle forme del bestiario vampiresco che ormai giudichiamo più note (pipistrelli, lupi eccetera). GATTI4.jpg A quel punto lo scarto tra le pur ampie conoscenze linguistiche degli abitanti del castello e la parola in una lingua sconosciuta risulterebbe ancora più provocatorio: Laura non può capire che Carmilla chiede “E Gatta dov’è?”, una frase che diversamente potrebbe tornarle alla memoria all’epoca dell’incubo in forma gattesca. Se le vampire del clan Karnstein metamorfizzano in gatte, la domanda di Carmilla potrebbe riferirsi quale nome o attributo alla madre; ma forse persino più plausibilmente alla megera immagine della “Serbia turca”. Si tratterebbe insomma di una “Gatta turca”: ed è suggestivo notare come in effetti a Celje/Cilli un albergo si chiami ancora Turška Mačka, “Gatta turca”, a evocare un animale con connotati reali (le specie turche di gatti a pelo lungo) ma che insieme interpella l’immaginario.
In effetti sul gatto Le Fanu poteva attingere a un ricchissimo repertorio mitico e simbolico. A partire, visto che i Karnstein sono un casato nobiliare, dai gatti dell’araldica: immagini di “gatti turchi” (le specie che noi differenziamo in Van e Angora) pare ornassero vessilli e armature delle tribù armene, e un palazzo aristocratico con armi custodite da gatti è visibile nel centro vecchio di Graz — suggestivo immaginare sia quello degli pseudo-Karnstein stokeriani, i Dolingen.

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Ma ovviamente più note e rilevanti per il contesto di Carmilla sono le declinazioni streghesche, delle quali per esempio offre conto il semiologo Renato Giovannoli nello splendido Il vampiro innominato (Medusa 2008): analizzando l’omeomorfismo delle strutture narrative dei Promessi sposi e di Dracula, e il virtuale romanzo gotico sviluppato in parallelo al testo manzoniano attraverso le illustrazioni commissionate dell’autore con puntuali didascalie all’artista Francesco Gonin, emergono a un certo punto anche gatti-incubi, stregheschi o Mammoni incombenti sul letto di uno sventurato (cap. XXXII).

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Al di là dell’ovvia differenza d’ambiente tra la Milano di Manzoni e la Stiria evocata da Le Fanu, una contiguità asburgica rende intrigante il parallelo: inevitabile dunque per Giovannoli citare Carmilla, e anche quel celebre episodio del gatto-vampiro della raccolta di fantasmi inglesi di Lord Halifax, presentato per vero (l’avrebbe vissuto suo nipote Everard Meynell) ma sul cui tenore la lettura di Le Fanu potrebbe avere in parte influito. Alla luce peraltro di quanto notato in altra puntata di questa stessa serie, sembra almeno plausibile che tra le fonti più dirette dell’epifania gattesca di Carmilla si debba registrare quella, non meno sfuggente, del gatto del Cheshire di Lewis Carroll, nell’ambito di un tessuto di rimandi troppo fitto per risultare casuale.
Che “Matska” sia dunque nome o attributo della madre di Carmilla, in relazione alla forma delle metamorfosi del clan, o invece quello della “black woman” — tata di Carmilla speculare alle istitutrici di Laura, custode di un harem della contessa-madre, o sorta di matriarca evocante antiche origini del male vampiresco — il caso di quell’accenno sfuggente sembra comunque emblematico di un tessuto testuale misterioso, e della stessa elusività di un modo di narrare che permettono ancor oggi a Carmilla di schiudere sorprese.