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Questo testo è tratto dalle pp. 121-125 di Franco Berardi Bifo, La sollevazione. Collasso europeo e prospettive del movimento, Manni, Lecce 2011, pp. 160, € 10.00 (qui la scheda di presentazione editoriale)

Il 14 dicembre del 2010 centinaia di migliaia di persone, per gran parte studenti e ricercatori invasero il centro delle città di Londra di Atene e di Roma e li misero a soqquadro. Non proprio a ferro e fuoco, per questa volta, la prossima si vedrà.
La loro piattaforma rivendicativa, se così la vogliamo chiamare, consisteva semplicemente in questo: la conoscenza, la ricerca, l’educazione non possono essere sottoposte agli interessi di arricchimento di una ristretta classe finanziaria, e le autorità politiche e finanziarie europee non possono tagliare i fondi per la ricerca e per la scuola, né possono pretendere di sottomettere le linee di sviluppo della ricerca e dell’educazione alle finalità del profitto e della competizione. Se si fa questo si avvia un processo di imbarbarimento, di de-civilizzazione.

L’autonomia della conoscenza era il nucleo centrale della rivolta, ma il modo in cui questa autonomia si manifesta è anzitutto la conquista dello spazio urbano, dello spazio esistenziale collettivo. Più che un movimento rivendicativo questo movimento di autonomia della conoscenza è un movimento di riattivazione dell’energia e dell’affettività del corpo sociale del lavoro cognitivo.
Dopo l’esplosione del 14 dicembre il movimento non ottenne naturalmente alcun ascolto da parte della classe dirigente europea, completamente sorda alla voce della società e totalmente incapace di immaginare soluzioni politiche diverse da quelle che corrispondono all’applicazione dei dogmi del neoliberismo e del monetarismo. E la rivolta si ripresentò, puntuale, ancor più violenta, nelle quattro notti di rabbia delle periferie inglesi, nel 15 ottobre romano.

bifoconlentezza.jpgUn giorno, ragionando con una studentessa che aveva partecipato al movimento di dicembre, dissi che probabilmente il movimento aveva vissuto momenti di riflusso perché non aveva ottenuto nessun risultato concreto. Lei mi guardò con una punta di disprezzo intellettuale e mi disse che non avevo capito niente. Nessuno della mia generazione, disse, si aspetta di ottenere qualcosa da questa classe dirigente, nessuno di noi si aspetta di “vincere” ammesso che questa parola significhi qualcosa. La ragione per cui partecipiamo al movimento, la ragione per cui ci ribelliamo è che solo in quelle occasioni possiamo vivere momenti d’intensità che altrimenti mancano nella nostra vita quotidiana.
Poteva apparire una risposta superficiale, vagamente psicologistica o comunque poco politica. In realtà quella risposta manifestava consapevolezza della questione fondamentale del movimento cognitario anticapitalista del nostro tempo: il bisogno di de-automatizzare il linguaggio, di riacquistare una dimensione desiderante nella comunicazione sociale, di riattivare la corporeità delle singolarità in cui si articola l’intelletto generale connesso nella rete. Insomma l’urgenza di mettere in moto il processo di ricomposizione sociale della forza lavoro cognitiva sperimentando nella rivolta la complicità affettuosa dei corpi, raggelati da decenni di virtualità e di competizione precaria.
Sta nella rivolta la sola possibilità e la sola speranza di ricostituire le condizioni per l’autonomia del lavoro sociale dal dominio — oggi davvero spietato, davvero cieco — del capitale finanziario. E sta qui anche la sola speranza per l’umanità intera di sovvertire la tendenza alla de-civilizzazione che avanza a passi da gigante negli anni della riaffermazione brutale del fallimentare comando neoliberista.

In un brano poetico di rara intensità, nella Quinta Elegia Duinese, Rainer Maria Rilke, dopo aver fatto apparire e scomparire dei girovaghi che sono forse ancora più fuggitivi di noi, costruisce una metafora bellissima della condizione precaria:

Ma dimmi chi sono questi girovaghi, questi anche un po’ / Più fuggitivi di noi, che fin da piccini / Un volere sempre scontento incalza e torce. Ma per chi, / per amore di chi? Li torce / li piega li intreccia li lancia / li butta li acchiappa; come da un’aria oleata, / più liscia, piombano sul tappeto consunto, / liso dal loro eterno saltare, questo tappeto / perduto nell’Universo. / Posato lì come un impiastro, come se il cielo / Del suburbio avesse fatto male alla terra / In quel punto. (vv. 1-12)

E infine, rivolgendosi all’annunziatore d’altri mondi possibili che nei suoi versi compare spesso come angelo, Rilke chiede se non esista una piazza, anzi afferma che non può non esserci una piazza (che noi non conosciamo) nella quale gli amanti, che qui non giungono mai all’adempimento, gettano finalmente le loro monete sempre risparmiate, laddove sempre mancava terreno.
Non c’è alcun senso nascosto del testo di Rilke, ma nelle sue parole leggiamo una descrizione delle fragili architetture della felicità collettiva, “quelle scale che da tanto, dove sempre mancava terreno, s’appoggiavano soltanto le alle altre, tremanti.”

Angelo, ma ci sarà una piazza che noi non conosciamo / Dove, su tappeto indicibile gli innamorati / che qui non giungono mai all’adempimento / potranno mostrare le alte ardite figure / dello slancio del cuore, le loro torri di gioia, / le scale che da tanto, dove sempre mancava terreno / s’appoggiavano soltanto l’una all’altra, tremanti. O, poterlo, / dinnanzi a innumerevoli taciti morti spettatori d’intorno / le getterebbero allora, le loro ultime monete, sempre risparmiate, / sempre nascoste, che noi non conosciamo, / le monete sempre valide della felicità alla coppia / che sorride finalmente davvero, su tappeto placato? (vv. 94-106)

La piazza che noi non conosciamo non è forse oggi ciò che la società impoverita dagli automatismi precari e compatibili, depauperata nella sfera sensibile, sta cercando? Non è forse la piazza che restituisce calore desiderante alla città privata del piacere e dell’erotismo dal ritmo competitivo e dal lavoro salariato, dal traffico automobilistico e dall’aggressività?
Non è forse la piazza dei movimenti che al Cairo come a Madrid e Barcellona come a Roma e come a Londra hanno cominciato a occupare gli spazi pubblici e a bloccare la città per restituirla alla sua dimensione felice?