di Luca Baiada (da Il Ponte, LXVII n. 10, ottobre 2011)

Anonymous.jpg[Ringraziamo Il Ponte per la gentile concessione.]

Dopo dieci anni, la narrazione ufficiale sull’11 settembre 2001 comincia anche in Italia a non essere più l’unica sui grandi mezzi di comunicazione. Il fatto ha segnato la storia di inizio millennio: invocato come casus belli, non c’è discorso in cui non sia entrato con la prepotenza di un argomento teologico e morale. Qui è il caso di ricapitolarlo e di incrinarne le certezze? Proprio no. Prendiamolo invece come occasione per un discorso più generale sul complotto e sulla sua ombra: l’accusa di complottismo.
Per dare un’idea del tema, su una questione a sfondo cospirativo si è discusso già due millenni fa: una specie di incastro fra complotti che si escludono a vicenda. Secondo il cristianesimo, Gesù muore e risorge. La sua morte è certa, e i concili preciseranno che è una completa morte fisica, non uno stordimento o una morte apparente. Sul seguito, sin dalla narrazione contenuta nei Vangeli la questione diventa non solo controversa, ma terreno di irriducibili accuse complottistiche. Pochi giorni dopo la sepoltura, alcuni sostengono che Gesù è risorto, altri lo negano. Chi lo nega, dice che la salma è sparita perché è stata rubata; chi lo afferma, dice che la menzogna del furto è stata inventata per nascondere che è risorto. C’erano soldati a guardia della tomba, e sostengono la tesi del furto, ma c’è chi dice che mentono per denaro. Ciascun gruppo accusa l’altro di complotto: o c’è un intrigo per propagandare una resurrezione falsa, o ce n’è un altro per oscurare una resurrezione vera. O i discepoli hanno tramato un complotto, o l’hanno ordito i loro avversari: è impossibile soffermarsi su questo segmento della vicenda senza dar credito a una teoria cospirativa. In quella fase, i due gruppi erano in realtà costituiti da ebrei, ma sarebbe imbarazzante dire che sull’origine del cristianesimo pesa una diatriba complottistica ebraica: ecco una conclusione che né gli ebrei né i cristiani sarebbero disposti ad accettare (questo forse spiega perché il tema dell’incastro di complotti su Gesù è trascurato).

Venendo a tempi più recenti, qualcosa sull’Italia. Terreno classico per macchinazioni di ogni tipo, specialmente per la presenza del potere papale, per le divisioni medievali, e per la rivalità fra le corti del Rinascimento, l’Italia è nell’immaginario il brodo di coltura ideale per complotti e controcomplotti: il nome di Machiavelli sarà per secoli sinonimo di spregiudicatezza, di segreto, di trame. Non è il Machiavelli gramsciano, né l’eroe foscoliano che smaschera di che lacrime e di che sangue grondi il potere. Piuttosto, è un cortigiano da fumetto, pronto a nascondere il veleno in un calice e uno stiletto nello sbuffo della manica. Eppure, la sensibilità politica italiana resterà a lungo poco attenta alle teorie complottistiche, sino all’ingresso dell’Italia nella società di massa, col piede sbagliato: sarà il fascismo, a vedere complotti antinazionali e a fiutare intrighi. Proprio i fascisti, che si sono impadroniti dell’Italia con denaro e aiuti ricevuti sottobanco sin dal 1919, dopo il 1943 e specialmente dopo il 1945 grideranno al complotto, e la loro mitologia fiorirà di trame: macchinazioni per la disfatta dell’Armir, la resa di Pantelleria, la consegna della flotta agli Alleati, eccetera. Ma il culmine si raggiungerà con Mussolini giustiziato, un fatto in cui la fantasia vedrà inglesi, statunitensi, sovietici, spie, oro, dame misteriose, valigie fantasma, cifrari segreti.
Più di recente è il clima berlusconiano, specialmente dal 2008, a intorbidarsi, a riprova della stagnazione politica e della mancanza di prospettive. Ricordiamo la ridda di ipotesi dopo quanto accaduto il 13 dicembre 2009, in piazza del Duomo a Milano. Le immagini che rappresentano il fatto in televisione mostrano una folla, Berlusconi con il viso bagnato di rosso, e un uomo arrestato. Si chiama Tartaglia, e su di lui la stampa nei giorni successivi dice un po’ di tutto. Poi, un silenzio sepolcrale. Circolano però altre immagini, in Internet. In particolare, un video che sulla vicenda pone alcune domande. Il modo in cui urta importanti suscettibilità, anche del «Corriere della sera», impone di ricordarlo. Qui non si può approfondire, ma è possibile ricordare quanto disse Roberto Maroni nell’autunno 1996: «A Berlusconi fare la vittima gli viene benissimo, è uno specialista: è tutta una messinscena, un colpo di teatro, pura autopropaganda». Nel 1996, si trattava del rinvenimento di un congegno elettronico in un ufficio di Berlusconi. Nel 1996 Maroni è un parlamentare, e nel 2009 è ministro dell’interno. Bisogna credere al parlamentare, quando dice che Berlusconi mente, oppure al ministro dell’interno di Berlusconi? Un bel rompicapo. Comunque, a gennaio 2011 è Umberto Bossi a dichiarare di aver trovato congegni per intercettazione nel suo ufficio e nella sua abitazione romana. Qualche giorno dopo, la casa del ministro Gianfranco Rotondi viene rovistata sottraendo un computer, sfondando i mobili e smontando i telefoni e i condizionatori: il ministro dice di subire spesso attenzioni del genere. Tornando all’accaduto del 2009 a Milano, Gioacchino Genchi dichiarerà di non credere a un’aggressione, e subito dopo dirà di aver cambiato idea. Ma c’è anche un’altra lettura del fatto, diversa da quella ufficiale. La presidente del Movisol, un movimento favorevole a Berlusconi, gli esprime solidarietà e in un’intervista a «Radio Padania» avalla una pista inglese, proponendo una divagazione che include la massoneria, il WWF, i Black block, Internet, Filippo di Edimburgo.
A proposito di teste coronate britanniche. Di antica tradizione nel mondo anglosassone, il complotto e la sua ombra sono personaggi assidui del discorso politico popolare. Anche qui, è possibile che questo sia un risvolto dell’impermeabilità del ceto dirigente (e infatti nella morte di Diana Spencer, donna altolocata ma creduta vicina al popolo, questo vede un assassinio). Complotto interno, esterno, svelato, nascosto, perduto, ritrovato. Per lui scorrono la celluloide e l’inchiostro, nel suo nome ogni cosa è se stessa e il suo contrario. La letteratura ne fa un genere, e il gusto che lo lega alla rappresentazione e al gioco si racconta persino attraverso le parole. Un intreccio narrativo è un plot, come una congiura, mentre il nome della rappresentazione, play, è quello del gioco. Tutto questo, in un alveo linguistico in cui lo spionaggio si chiama come la vita della mente: intelligence. Ecco applicata bene la consapevolezza che il potere è anzitutto un linguaggio, e persino un uomo di pochi complimenti, l’ex capo del Sismi Fulvio Martini, dice che il servizio segreto militare britannico è il migliore del mondo. Allo stesso tempo, il discorso politico anglosassone è prudente con le accuse esplicite di complotto, per evitare discredito: per non ricevere cioè l’accusa di fare complottismo, di propinare una volgare conspiracy theory.
La cultura che strattona il complotto è anche quella del bet, della scommessa su qualsiasi cosa (dentro i tracolli finanziari, ci sono anche le conseguenze di contratti che sono sostanzialmente scommesse di altissimo livello), come se la voglia di irrazionale si prendesse la rivincita contro un pensiero profondamente empirico. L’ottimo film documentario del 2010 su alcuni meccanismi della crisi economica, ha l’atmosfera di un mistero e si intitola Inside Job, un’espressione ritagliata sul complotto, sul tradimento, e cara a chi non crede alla versione ufficiale sull’11 settembre 2001. Proprio chi fa troppe domande sull’11 settembre, è accusato di negazionismo, cioè di non condividere valori fondanti del presente e di negare fatti fondanti del passato. Dunque si finge che la controversia sia oggettiva, mentre è progettuale e valoriale, cioè anche religiosa: si deve scommettere su una verità, per guadagnare un’appartenenza, per sventare le macchinazioni nemiche, e per essere disposti a mantenere il segreto: bet e conspiracy abitano la stessa casa.
Queste contraddizioni si sono misurate nella vicenda di Wikileaks, e specialmente nel suo capolavoro, il Cablegate. Nel 2010 l’impegno di un gruppo di informatici, e il rischio personale di chi procura loro informazioni e documenti, svelano manovre di potere di portata internazionale. Molto di ciò che è scoperto suona come gestione spregiudicata delle cose, altro possiede i tratti di uno sciame di complotti o di cointeressenze sordide. Invece, si accuserà di complotto Wikileaks (per esempio, da parte di Moises Naim e di Lucia Annunziata, pronti però ad accusare di complottismo chi ha dubbi sull’11 settembre). Mentre scrivo, Julian Assange è sotto custodia da nove mesi, con accuse dal chiaro retrogusto politico; Bradley Manning, che forse gli ha fornito i documenti più importanti, sta peggio, è prigioniero in un carcere militare. Eppure la vicenda Wikileaks ha molto da insegnare. Le ingerenze, il cinismo, la protervia, il ricatto e la corruzione politica trovano nel Cablegate un riscontro preciso, efficace anche perché narrato per lo più con linguaggio protocollare, ridotto all’osso del pragmatismo anglosassone, ma con la polpa di interessi planetari, e qua e là il pepe di un gelido umorismo.
In tutto il mondo, sin da fine 2010 le reazioni governative al Cablegate sono state convulse, come se sollevata una pietra si fosse scoperto un brulicare di scolopendre. La realtà è che il pianeta è governato quasi ovunque da un ceto dirigente screziato per etnie, lingue, religioni, ma monolitico quando si tratta dell’uso spregiudicato di ogni mezzo per il dominio e il denaro. Chiamare complotto tutto questo è persino riduttivo: si pensa a un demonio, ma sono legione.
In difesa di Wikileaks, militanti dalla logica raffinatissima, sparsi per il mondo ma senza base popolare, tentano attacchi informatici destinati a esiti brevi, e organizzano manifestazioni a sorpresa. Si fanno chiamare «Anonymous», una denominazione risalente almeno al 2008. Per segno, seguendo un’usanza già avviata fra gli attivisti informatici, hanno una maschera che riproduce le fattezze di Guy Fawkes, quello della congiura delle polveri del 1605, indossata dal protagonista di un fumetto e poi di un film del 2006, V per Vendetta. È un’iconografia di effetto immediato e di forte resa emotiva, ma tradisce debolezza. La rabbia contro la prepotenza, l’angoscia per il senso di chiuso e di immutabilità della situazione politica di inizio millennio, sono sincere. Mancano parole d’ordine condivise, manca un programma attorno al quale stringere una massa critica di persone, di intellettuali, di ribelli e di costruttori. Ma il bisogno di fare è forte, e va di moda la curiosa maschera, sorridente e sofferta (il personaggio che la indossa nel film non mostra mai il suo volto).
Colmo di paradosso, il vero Guy Fawkes fu un cattolico, che complottò contro la monarchia protestante. Si trovò cioè dalla parte del potere di Roma, non dell’indipendenza. In mancanza di icone migliori, la sua faccia oggi è una bandiera, e come nel film V per Vendetta i mascherati invadono le strade di Londra, così dal 2010 le iniziative pubbliche per Wikileaks e per la libertà d’informazione vedono quel sorriso comparire a sorpresa, mimando una sorta di complotto intellettuale, fatto di sfida, di trasparenza informativa, di alta tecnologia, contro il potere affaristico e mediatico nella società globalizzata. Troppo poco per cambiare le cose, certo, ma abbastanza per mettere in allarme: la maschera di una ribellione, è già una ribellione.
Lo stato d’animo che accompagna tutto questo può essere paragonato a quello del successo del Conte di Montecristo, sin dall’Ottocento. Nel romanzo, da sempre i deboli sentono palpitare una promessa di riscatto. Ancor oggi, i sigari Montecristo devono il nome al fatto che gli operai mentre li fabbricavano a mano volevano sentire dalla voce di un lettore le pagine del loro libro preferito, quello scritto dal fortunato creolo Dumas: la storia rocambolesca in cui la vittima di un complotto ne tesse un altro per vendicarsi. I romanzi non sono la vita, dice il bruciatore di libri in Fahrenheit 451. Ma quei fabbricatori di sigari, superstiziosi e creduloni alle parole di un romanzo fantasmagorico, hanno cacciato da Cuba prima la Spagna e poi gli Stati uniti. Allora, credere oltre il credibile aiuta a realizzare l’irrealizzabile? Per cercare almeno uno stimolo alla risposta, proviamo ad affrontare un tabù.
Parlando del libro I Protocolli dei savi di Sion, è bene ricordare che il testo è falso: non è stato scritto da ebrei, ma da loro detrattori. Il fatto poi che sia stato usato per un secolo come base ideologica per perseguitarli, lo rende più odioso. Chi parlando del Libro di Ester dicesse che è un testo falso, né in ambiente ebraico né in ambiente cristiano farebbe bella figura. Eppure, invano si sono cercati riscontri di quanto narra sul re Assuero, sul suo malvagio ministro Aman, sulla regina Ester, e immaginaria è la trama che vi è raccontata. Difficilmente, però, i genitori ebrei spiegano questo ai figli, quando vogliono partecipare a Purim; per esempio, quando le bambine chiedono di vestirsi da regina Ester per mimare un personaggio vivo solo nel mito.
Il Libro di Ester descrive un complotto contro gli ebrei, sventato e seguito dalla strage dei congiurati. Una narrazione pienamente inquadrabile nel genere cospirazionista, accompagnata persino da una ricorrenza nel calendario, in cui è vivacemente coinvolta l’infanzia. Un babau col lieto fine. È possibile che questa narrazione di paura e di festa sia servita a salvare vite umane? È possibile, cioè, che la paura indotta dalle generazioni precedenti abbia costruito la prudenza di quelle successive? Per rispondere bisognerebbe considerare molte variabili, e soprattutto sapere come si sarebbero comportati i perseguitati se non avessero ricevuto l’educazione a una paura guidata. Ma i salvati difficilmente prendono il ruolo dei sommersi, e i sommersi tacciono. Di certo, il sospetto non è un bel vivere né un bell’educare, ma può salvare la vita. Il mitico ministro Aman, se fosse stato più sospettoso sarebbe vissuto più a lungo, avrebbe attuato il suo complotto, e avrebbe scritto il Libro di Aman. Detto in altri termini, nel lungo periodo probabilmente sono i sospettosi, a raccontare come va a finire, e quindi è possibile che la narrazione del passato sia in parte costituzionalmente sospettosa. Detto ancora diversamente, il presente è condizionato dalla paranoia sulla lettura del passato, quindi il passato è sempre un po’ un complotto, il presente è sempre un po’ complottista, e il futuro ci sembra che non lo sia perché non ha avuto ancora il tempo di diventarlo. Lo stesso Libro di Ester commenta così il suo racconto: «E questo potete osservare non tanto nelle antiche storie che si tramandano, quanto fra le cose che avvengono sotto i vostri occhi, se esaminate le azioni compiute bassamente per la malvagità dei governanti indegni». Se è solo una leggenda cospirazionista, non c’è da preoccuparsi. Diversamente, proprio il passato dice di essere il futuro, quindi è il presente. E come nel Libro di Ester il ministro Aman fa «gettare le sorti» nell’imminenza del suo complotto, e il nome della ricorrenza, Purim, significa appunto sorti, così oggi bet e conspiracy coabitano. L’ignoto intriga.
Poche cose tengono insieme il gruppo come la paura, e l’immaginario complottista ha la capacità di stimolarla perché spesso fa leva su fatti veri. In un dispaccio rivelato da Wikileaks, l’ambasciatore Usa a Roma nota come gli italiani siano «notevolmente dediti a teorie complottiste». Un’affermazione irritante: le fonti statunitensi per queste teorie, anche in Internet, sono inesauribili; e in troppe fogne, nella storia oscura dell’Italia dal 1945, c’è almeno un rigagnolo Usa. In generale, comunque, se ogni gruppo è complottista proporzionalmente alla sua coesione, inevitabilmente lo è la percezione del tempo, perché i concetti di passato, presente e futuro sono frequentabili quasi soltanto in relazione con gli altri. Se gli italiani avessero imparato questo, eviterebbero le celebrazioni monumentali, troppo maschili e razionalizzate; per esempio, quelle trombonesche che si sono viste per il 150° dell’unità. Invece, le donne e i bambini parteciperebbero con allegria alle ricorrenze che riguardano l’unità nazionale, la detronizzazione del papa re, la sconfitta dei fascisti, la cacciata dei tedeschi e la liquidazione della monarchia, e non si farebbero scrupolo di circondare questi fatti anche di narrazioni cospirazioniste, da credere vere nell’infanzia e da ridimensionare nell’età adulta, ma senza perderle di vista, e soprattutto raccontandole daccapo alle generazioni successive.
Quanto alla versione ufficiale sull’11 settembre 2001, la percezione del nuovo millennio non potrà esserne condizionata all’infinito, né si potrà sempre tacciare di credulità, superstizione e delirio chi non la condivide, e magari pone questioni serissime. Oggi, i nati nel 2001 già cominciano a curiosare su molte cose, segno inequivocabile che presto porranno domande imbarazzanti su tutto il resto, che stanno ricevendo un debito generazionale e che poi lo metteranno in discussione. Gli archivi si apriranno, e quelli sul falso incidente del Tonchino hanno rivelato le menzogne invocate per la guerra in Vietnam. Per quelli che non si apriranno, nuove tecnologie investigative e più acuti ragionamenti faranno chiarezza fin dove possibile. Solo il concreto modo di essere dei rapporti di forza, geopolitici e sociali, dirà se si potrà evitare di costruire sull’11 settembre identità colpevoli (Aman, i musulmani, Israele, i gesuiti, i lebbrosi o chissà), e invece fare leva sul passato per sollevare il futuro. Una cosa è certa: le grida contro il complottismo non potranno restare identiche, perché col tempo perderanno l’efficacia dissuasiva che Orwell sintetizza nel meccanismo dello stopreato, «una forma di stupidità protettiva». E anche perché se quando si parla di cronaca si può aver voglia di avventure, quando si parla di storia la solitudine è un’accompagnatrice insopportabile.
Il complotto è il totem forse ineliminabile di ogni narrazione, specialmente di quella a carattere identitario. E la sua ombra, il complottismo, come il terrorismo è sempre a casa degli altri. Il totem e la sua ombra potranno essere seguiti come percorsi di costruzione e di decostruzione, sino a che la percezione della realtà sarà filtrata dai conflitti. Oggi è la narrazione Usa sull’11 settembre 2001, a scricchiolare (ed era ora, perché ci sono cose che non tornano). Ma io prometto di dimostrare, al prossimo passaggio di millennio, che questo meccanismo non sarà cambiato. Allora, nel 3001, ricapitolerò altri dieci secoli di fatti, troverò incongruenze e smaschererò imposture. E se quel giorno non potrò mantenere la promessa che faccio oggi, la mia misteriosa assenza sarà la migliore dimostrazione che le oscure forze della menzogna avranno complottato per mettermi a tacere. Ma sarò vendicato.