di Fabrizio Lorusso

haiti_habitat_09.jpgL’Honduras ha approvato (anche nella Costituzione) il progetto della Charter City, una città da edificare ex novo e commissionare agli investitori e paesi stranieri con leggi proprie (eventualmente fuori dal regime democratico) per attirare investimenti e “sviluppo”. Si basa sulle teorie del candidato al Nobel Paul Romer di Stanford e sul modello cinese di Hong Kong e Shenzhen. Sono anni che Romer va in giro per il mondo a proporre a paesi in via di sviluppo soluzioni miracolose fondate sulla teoria economica mainstream. Sarebbe l’outsourcing di un’intera città. Una via di mezzo tra la zona franca nella sua variante latino americana e i paradisi fiscali con tutte le violazioni dal basso (diritti del lavoro) e dall’alto (capitali all’estero e finanza) che ne conseguono: c’è il modello della città di Colón a Panama, caratterizzata dall’esasperata flessibilità di regole, diritti lavorativi e obblighi fiscali, e i noti paradisi offshore di cui tanto sentiamo tanto parlare quando ad ogni manovra finanziaria si propone un nuovo condono del fisco per gli evasori che hanno esportato capitali illegalmente. L’Honduras cerca in realtà un colpo mediatico, un escamotage col retrogusto di una promessa (quasi) realizzabile, il miraggio del tesoro. Il governo è delegittimato dopo il colpo di stato del 2008 e spera di “far arrivare il sogno americano” in patria anziché dover espellere lavoratori migranti verso il ricco Nord. Inoltre è prevista l’espropriazione del territorio abitato dal popolo dei Garifuna sulla costa caraibica. Ma vediamo i dettagli.

Lo scorso 28 luglio l’Honduras è diventato il primo paese al mondo a modificare la Costituzione per permettere la fondazione sul territorio nazionale di una Charter City, cioè una “città modello” a statuto speciale affidata in gestione a una potenza straniera. Con 107 voti a favore e solo 7 contrari il Parlamento ha dato il via a un progetto che punta a costituire un sistema ibrido, un mix tra il regime della zona franca e il paradiso fiscale concentrato su una superficie di 1000 chilometri quadrati con la capacità d’accogliere almeno un milione di persone.

L’ideatore di questa versione moderna delle città-stato è l’economista di Stanford candidato al Nobel, Paul Romer. Da vent’anni il professor Romer gira il mondo illustrando il suo progetto che promette crescita e benessere a quei paesi in via di sviluppo che, in cerca di soluzioni rapide alle crisi interne e globali, sono disposti a concedere in outsourcing un’intera città. Romer sembra aver scoperto la formula magica per risolvere i problemi di corruzione e sottosviluppo che affliggono la gran parte dei paesi dell’Africa e dell’America Latina. Nel 2008 il Madagascar aveva accettato il progetto ma un colpo di Stato ne impedì la continuazione. Hong Kong, Shangai e Singapore sono i casi principali citati dal guru statunitense a supporto della sua tesi per cui grazie all’imposizione di regole chiare dall’esterno e alla volontà del paese anfitrione e dei finanziatori sarebbe possibile trasformare un dato territorio in un modello di sviluppo da riprodurre in serie.

In alcune conferenze Romer ha suggerito al Presidente cubano Raul Castro di prendere accordi con gli Stati Uniti per trasformare la base di Guantanamo in una città modello sotto il controllo canadese. Ha anche azzardato un piano per Haiti che prevede la sostituzione dei caschi blu dell’Onu sull’isola con una missione che dia vita a una città amministrata dal Brasile. Romer sembra aver scoperto la formula magica per risolvere i problemi di corruzione e sottosviluppo che affliggono la gran parte dei paesi dell’Africa e dell’America Latina. Si sta giocando il Nobel per l’economia, uno dei più astrusi tra i premi conferiti dall’Accademia di Svezia, con questo progetto? Non lo so, ma quanti paesi in via di sviluppo sono disposti ad affidarsi alle sue teorie? Ogni tanto qualcuno ci casca.

Gli elementi comuni alle Charter City sono almeno tre: la scelta di un territorio disabitato, uno statuto (“charter”) garantito da uno Stato straniero neutrale e la libertà d’ingresso e residenza. Il regolamento approvato dai legislatori honduregni stabilisce il bilinguismo, quindi si parleranno l’inglese o un’altra lingua oltre allo spagnolo. Inoltre non vi saranno restrizioni alla circolazione delle valute straniere insieme alla lempira, la moneta nazionale. Il pericolo è che le regole d’oro che dovrebbero impulsare la crescita economica all’interno della “città perfetta” conducano alla precarizzazione del lavoro, al congelamento dei sindacati, a vantaggi fiscali indiscriminati e alla sospensione di alcune garanzie democratiche in favore dell’efficienza amministrativa. La proposta di creare da zero una capitale economica e finanziaria in mezzo al deserto ricorda più le sfide di vecchi videogiochi come Sim City e Civilization che una politica efficace e realista per stimolare lo sviluppo. Senza riforme fiscali, redistribuzione, sanità universale, educazione gratuita e di qualità non c’è sviluppo, al massimo solo crescita per qualche anno e poi? Inventiamo la città perfetta e la facciamo costruire alla Norvegia? L’esperimento risulterebbe in un’utopia d’ingegneria socioeconomica discutibile dal taglio positivista e determinista ma, si sa, la mancanza di visione e la fretta non sono buone consigliere. L’idea delle città modello ricorda da vicino la definizione e i tratti che venivano attribuiti dai sociologi della teoria della dipendenza latino-americana – per esempio, l’ex presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso ed Enzo Faletto – all’economia dell’enclave che è una “isoletta di capitalismo monopolista inserita in contesti precapitalisti con cui non hanno altra relazione se non quella di estrarne l’eccedente economico”. Inoltre le caratteristiche dell’enclave si riassumono in una creazione o acquisizione di un settore che diventa un prolungamento diretto dell’economia centrale riguardo alle decisioni di investimento, alla gestione degli utili e al legame con il mercato mondiale che è più vicino e integrato rispetto a quello nazionale.

Ad ogni modo l’Honduras deve trovare i finanziamenti di governi, imprenditori e manager dei paesi industrializzati che, attratti dai presunti vantaggi legali ed economici da poco approvati per le Charter City, dovrebbero edificare la metropoli del futuro in soli 4 anni secondo le stime governative. La città modello avrà una legislazione speciale, un proprio sistema amministrativo, un governatore, una polizia e una magistratura autonomi e, quindi, sfuggirà in buona parte al controllo politico di Tegucigalpa. Le zone segnalate per la costruzione sarebbero due: la Baia di Trujillo, una regione caraibica devastata dall’uragano Mitch nel 1998, e la costa settentrionale atlantica della Mosquitia che è stata dichiarata patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Da secoli entrambe sono abitate dal popolo d’origine africana dei garifuna e loro sono tra i più acerrimi nemici del megaprogetto che minaccia usi, costumi, ecosistemi e territori locali.mapa_honduras.jpg
“Il problema non sono le regole, ma la politica e la gente corrotta”, sostiene Carlos Sabillón, politologo e opinionista televisivo honduregno. Sabillón è molto scettico sulla riuscita dell’operazione. “Siamo di fronte alla creazione di uno Stato dentro lo Stato. Chi lo finanzia? Ricordiamo che i narcos hanno capitali in eccesso pronti da investire…”, ha aggiunto.
Cayo Cochino, un isoletta del dipartimento honduregno di Roatan era già stata affittata per la versione italiana del programma L’Isola dei Famosi. Ora la stessa regione potrebbe ospitare il progetto, totalmente compatibile con l’ideologia e lo spirito di quelle produzioni televisive (!), della Charter City, si pensa infatti alla sua costruzione nella zona costiera tra Trujillo e la Ceiba che fu devastata dall’uragano Mitch nel 1998. Così la città perfetta dovrà essere approntata anche per resistere alla terribile stagione degli uragani, chissà se ci hanno pensato.

Il Presidente dell’Honduras, Porfirio Lobo, s’è rivolto ai cittadini invitandoli “a sognare, a pensare ad un luogo ideale dove possiamo vedere come arrivano senza limiti gli investimenti”. Malgrado i buoni auspici il paese è in balia della stagnazione economica e della violenza che si manifesta con le sistematiche violazioni dei diritti umani e con un tasso di omicidi tra i più alti al mondo, 70 ogni 100.000 abitanti nel 2010. L’ascesa politica di Lobo cominciò poche settimane dopo il golpe del giugno 2008 che costrinse all’esilio l’allora Presidente Manuel Zelaya. La classe dirigente honduregna è rimasta a lungo isolata dalla comunità internazionale, il paese è stato riammesso da poco nella OSA (Organizzazione Stati Americani), e, mentre sogna di avere la sua Hong Kong caraibica, resta alla disperata ricerca della legittimità perduta.
La favola economica del mercato perfetto e della corrente neoistituzionalista, secondo cui bastano regole e istituzioni funzionanti, magari gestite dall’esterno, per generare lo sviluppo, fare il salto verso il “primo mondo” e automaticamente distribuire ricchezza a tutto il sistema non ha dato ancora i suoi frutti a queste latitudini e, in generale, nel mondo reale.
Già negli anni cinquanta, quando anche i Chicago Boys di Milton Friedman cominciavano ad aggiornare e diffondere teoria economica neoclassica, il monetarismo e il neoliberismo, l’economista e politico statunitense W. W. Rostow sosteneva la teoria del “goteo”, che in spagnolo significa gocciolamento, alludendo alla ricchezza e al benessere che sarebbero filtrati a tutta la società se si lasciava liberamente operare il mercato.

Ecco che ancora oggi l’Honduras post-golpista prova a sperare in soluzioni facili e locali, quali le Charter City, che diffondano il paradiso in tutto il paese e, s’è detto, anche in tutto il continente. Intanto ci si chiede giustamente per quanti anni ancora continueranno la militarizzazione, le violazioni ai diritti umani e la violenza strutturale che provoca quasi ventimila morti all’anno, 80 omicidi ogni 100.000 abitanti, un tasso che è oltre quattro volte quello messicano. Se gli unici che avranno accesso al paradiso della città perfetta saranno gli honduregni più istruiti e qualificati, allora non vedo molte speranze per gli 8 milioni di connazionali che saranno esclusi e continueranno a emigrare. Quali meccanismi sono stati previsti per l’estensione dei benefici e lo sviluppo? Per ora non se ne vedono.

Chiudo con alcuni link.
Intervista a Paul Romer: qui
Osservatori su Honduras, Nicaragua e il Centro America
http://www.itanica.org/
http://www.peacelink.it/latina/a/

Una versione ridotta di questo articolo è uscita sul quotidiano L’Unità del 9 settembre 2011.