di Marilù Oliva

La fabbrica delle prostitute_small.jpg«L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) stima in 12 milioni e 300.000 le persone sottoposte a sfruttamento lavorativo e sessuale. Tra queste, ogni anno, circa 800.000 sono trasportate oltre i confini nazionali per essere sfruttate in altri Paesi. L’80 per cento delle vittime sono donne e bambine, le più vulnerabili, in più del 50 per cento dei casi minorenni». (p. 10)

“La fabbrica delle prostitute. Un viaggio nel mercato criminale del sesso, dai villaggi della Nigeria ai marciapiedi italiani” è un libro-inchiesta di Giuseppe Carrisi pubblicato per Newton Compton nella collana Controcorrente. L’opera è divisa in tre parti, di cui la prima − che tratteggia uno scenario transnazionale − è dedicata alle nuove schiavitù permesse dalle disuguaglianze che dividono Nord e Sud del mondo. I “nuovi schiavi” provengono infatti dalle realtà più emarginate del pianeta, dove la sopravvivenza è una lotta quotidiana. L’autore dimostra come, alla supremazia giuridica dell’uomo sull’uomo che caratterizzava il rapporto schiavo-padrone di un tempo, si è oggi sostituito un rapporto altrettanto pericoloso incentrato su un dominio economico, culturale e psicologico.

La seconda parte riporta la storia di Amina − nata in una realtà poverissima e in una famiglia poco accogliente − e il suo lunghissimo viaggio dalla Nigeria all’Italia: «Il mondo in cui sono nata e cresciuta io era ed è intriso di violenza. Stuprato dalla guerra. A cominciare da Benin City, città dai mille volti, segnata da profonde contraddizioni. A Benin City vivono più di un milione di persone, e la povertà si incontra ad ogni angolo. Si respira, si sente. La città è sporca e abbandonata; le case somigliano sempre più a baracche fatiscenti; le strade sono piene di buche grandi come voragini.[…]Una delle immagini di Benin City che mi porto dentro sono i lebbrosi che girano per le strade impolverate come tanti zombi. Li vedi dappertutto, disperati tra i disperati». Il viaggio di Amina incontra ostacoli naturali e non: un deserto cosparso di cadaveri, trafficanti privi di scrupoli, freddo, caldo, fame, sete, tanti paesi da attraversare per poi trovarsi davanti a un barcone spesso stracarico e fatiscente e a un mare infido.
L’ultima parte indaga sul caso Nigeria, dove un governo corrotto ha firmato leggi che hanno messo le risorse petrolifere sotto il controllo di multinazionali straniere, accelerando il meccanismo di depauperamento delle classi meno protette. Povertà è ignoranza vanno di pari passo e altro elemento che l’autore rileva è l’arretratissima condizione femminile nigeriana. Le donne subiscono sistematicamente gravi violazioni e discriminazioni. Il 40 per cento delle donne è analfabeta e vive schiava di padri e mariti (se una donna resta vedova, può essere “ereditata” dal parente più anziano del defunto). Ancora oggi la poligamia è molto praticata, è inoltre molto diffusa la pratica della clitoridectomia e l’usanza di combinare matrimoni indipendentemente dalla volontà della futura moglie.

Il momento ideativo e quello documentativo: come è partita l’idea di un’indagine sul mercato criminale del sesso e come ha proceduto nella raccolta delle fonti?
L’idea di scrivere un libro sull’argomento è nata dopo l’incontro con un’associazione di volontariato italiana che aiuta le ragazze nigeriane ad uscire dalla tratta. Alcuni volontari mi hanno fatto incontrare una di loro, molto giovane, con alle spalle una storia incredibile. Me la sono fatta raccontare dall’inizio alla fine, e su quella storia ho poi costruito il resto del saggio. Così sono entrato in contatto con diverse realtà che si occupano di denunciare e combattere lo sfruttamento delle giovani donne nel mercato del sesso e ho cominciato a raccogliere altre storie, dati e tanto altro materiale con il quale sono riuscito a ricostruire il quadro internazionale di questo triste fenomeno.

Durante le ricerche, è emerso un dato che non immaginava?
Tra i tanti dati che ho analizzato e in cui mi sono imbattuto durante la stesura del libro, uno più degli altri mi ha impressionato: quello relativo al numero dei “clienti” italiani. Nove milioni di uomini che, nel nostro Paese, abitualmente frequentano le prostitute sono un dato allarmante. Vuol dire che c’è qualcosa di “malato” nel rapporto tra uomo e donna, in questo momento storico. Il sesso, sempre più, sta diventando un bene di consumo: lo si può “acquistare” con facilità, come un qualsiasi altro oggetto.

Ci sfata un luogo comune?
Il luogo comune da sfatare è quello secondo cui, oggi, la donna si è emancipata e se si prostituisce lo fa per scelta. Se questo assioma può valere per alcune di loro (escort e accompagnatrici), certamente non riguarda la maggior parte delle ragazze, soprattutto quelle che arrivano dalle aree povere del mondo. Loro non hanno la libertà di scegliere, sono vittime di un sistema perverso che non lascia scampo: vengono private della dignità, della personalità e trasformate in “macchine” per fare soldi. A loro rimane ben poco, se non la disperazione, la vergogna e la sofferenza per quello che hanno subito.

Ha radunato diverse testimonianze, tutte impressionanti. Qual è stata la storia che più l’ha scossa?
Tra le tante storie che ho riportato nel libro, c’è n’è una, in particolare, che mi ha colpito molto. E’ la storia di una ragazza molto giovane, partita dalla Nigeria con destinazione l’Italia, che durante la traversata in gommone dalla Libia a Lampedusa scopre che non andrà a fare la parrucchiera, come le era stato detto dalla “maman”, ma la prostituta. Lei cerca di ribellarsi, ma quando capisce che non può fare nulla si getta in mare. Piuttosto che accettare l’umiliazione di quella vita, ha preferito morire. Quel gesto mi ha fatto capire fin dove può arrivare la disperazione umana.

Ha analizzato anche la questione, spesso taciuta, dei peacemaker e degli stupri collegati alla loro presenza: «L’arrivo dei cosiddetti “contingenti di pace” (missioni della NATO, Caschi Blu ecc.), oltre allo sfruttamento economico delle popolazioni locali, spesso comporta anche l’abuso sessuale su donne e bambine» (p. 32) e, nella pagina seguente: «Nel 1996 è stato pubblicato un dossier, il Rapporto Machel, da cui risulta che in 6 su 12 Paesi presi in esame l’arrivo delle forze di peacekeeping è coinciso con un aumento della prostituzione minorile. Uno di questi Stati è il Mozambico. Nel 1992, dopo che è stato firmato il trattato di pace», si legge tra le altre cose nel documento, «alcuni soldati del contingente UNOMOZ (United Nations Operations in Mozambique, n.d.a.) hanno avviato alla prostituzione ragazze tra i 12 e i 18 anni»35. In seguito a quella denuncia, le Nazioni Unite aprirono un’inchiesta che confermò le accuse e i soldati colpevoli vennero rimpatriati». Le risulta che siano state prese altre misure, dalle organizzazioni di provenienza dei responsabili?
Non so se i responsabili di quegli atti criminali siano stati puniti anche in altre maniere, oltre ad essere stati rimpatriati. Quello che è certo, è che le Nazioni Unite o altri organismi internazionali non possono accettare in alcun modo che dei loro dipendenti o funzionari tengano certi comportamenti; non si può pensare che i più forti continuino a sfruttare liberamente i più deboli, i più vulnerabili sicuri dell’impunità o di pene blande. Credo bisognerebbe intervenire in maniera più drastica e pesante per sanzionare i responsabili di abusi compiuti nei confronti di donne e bambini.

Il traffico di prostituzione nigeriana è articolato su più livelli, uno degli ultimi è quello gestito dalla “maman”: la sfruttatrice, la controller, la quale spesso, a sua volta, è stata costretta a prostituirsi negli anni passati e ha subìto le stesse violenze con cui ora affligge le ragazze in sua balìa. Non si sviluppa un sentimento di solidarietà femminile? O la paura, l’abitudine alle angherie, l’ansia di guadagno prevaricano ogni ritrosia? Questo passaggio della “maman” da “figura oppressa” a “oppressore” conferma un legame di reciprocità, anche nel male, tra i due ruoli?
Quando la parola d’ordine è “denaro”, “potere”, non c’è spazio per la dimensione umana, spirituale, per la solidarietà, la fratellanza. Tutto viene fatto in nome del profitto: minacce, violenza, inganni, sopraffazione sono le uniche maniere per assoggettare la volontà delle giovani vittime. Le “maman” prima di essere aguzzine, sono state vittime anche loro. Hanno vissuto nella paura, nel terrore; hanno subìto angherie e maltrattamenti; erano considerati pari a zero. Rivalersi su altre persone deboli è l’occasione per riscattarsi da quel passato. Il male genera altro male, e così via in una spirale senza fine.

La condizione straniera delle prostitute rende più serena la coscienza di chi le compra?
L’idea comune è che queste poveracce, nel loro Paese, facevano la fame, erano disperate e nessuno le voleva. Tutto sommato, quindi, anche se vendono il loro corpo nei marciapiedi delle nostre città o agli angoli delle strade, stanno meglio di prima. “Comprare” i loro “servizi”, quindi, dare loro dei soldi per molti uomini significa aiutarle. È come aver fatto l’elemosina ai mendicanti o ai lavavetri che si incontrano ai semafori. Non si pensa che quei soldi non finiscono nelle tasche di queste ragazze e che, così facendo, si continua ad alimentare un mercato illegale che, a livello mondiale, frutta miliardi di dollari alle mafie transnazionali.

Già col titolo sottolinea la valenza aziendale del meccanismo-prostituzione e la differenza tra la schiavitù attuale e quella storica, che si basava quasi esclusivamente su esigenze di lavoro servile. La schiavitù moderna, infatti «nasce e si sviluppa su una domanda e un’offerta praticamente inesauribili: da una parte, la “merce” persona è una risorsa di cui non mancherà mai la disponibilità; dall’altra, le spinte che costituiscono il volano di questo mercato possiedono una forza e un potere che difficilmente diminuiranno nel tempo, anzi esistono indicatori che lasciano ritenere il contrario» (p. 14). Da una prospettiva di storia economica, il capitalismo favorisce questo fenomeno? Quali altri fattori lo favoriscono, oltre alla sopracitata disuguaglianza?
Certamente il capitalismo e, più di recente, la globalizzazione hanno favorito il fenomeno della tratta e dello sfruttamento di esseri umani nei diversi campi, compresi quello sessuale. Ma sono tante le concause, tutte intrecciate tra di loro. Le conseguenze derivate dalla trasformazione dell’Europa dell’Est, dalla persistente e sempre più accentuata divisione economica tra Nord e Sud del mondo e dall’esplosione di crisi complesse di carattere interno e internazionale, dunque, hanno prodotto in questi ultimi anni un aumento delle diseguaglianze sociali, della conflittualità inter-etnica, degli autoritarismi, della militarizzazione dei territori e, in ultima analisi, della precarietà delle condizioni di vita. A differenza della schiavitù storica, che si basava quasi esclusivamente su esigenze di lavoro servile, la schiavitù moderna nasce e si sviluppa su una domanda e un’offerta praticamente inesauribili: da una parte, la “merce” persona è una risorsa di cui non mancherà mai la disponibilità; dall’altra, le spinte che costituiscono il volano di questo mercato possiedono una forza e un potere che difficilmente diminuiranno nel tempo, anzi, esistono indicatori che lasciano ritenere in contrario.

Se ci fossero dei provvedimenti per arginare o addirittura eliminare il fenomeno, quali sarebbero, se si eccettua la più sana soluzione − ma anche quella purtroppo ad oggi più lontana − ovvero l’eliminazione dei dislivelli economici e culturali?
Credo che la prima cosa da fare sarebbe restituire centralità all’uomo, riportarlo al fulcro di tutti i ragionamenti, di tutte le strategie. In questo senso, occorre una sorta di rivoluzione culturale copernicana. È un processo lungo, ma a mio avviso inevitabile se si vogliono eliminare tante piaghe che affliggono l’umanità.