dell’Assemblea Antifascista Permanente di Bologna

ControrivoluzionePreventiva.jpg[L’Assemblea Antifascista Permanente di Bologna, di recente trasformatasi in Nodo Sociale Antifascista, ha opportunamente ripubblicato il volume di Luigi Fabbri La controrivoluzione preventiva, uscito in origine nel 1922. La persistente attualità di quel testo, opera di una delle figure più luminose dell’anarchismo italiano, è spiegata nell’introduzione al libro, che proponiamo senza l’importante corredo di note. Ringraziamo il Nodo Sociale Antifascista per l’autorizzazione a pubblicare lo scritto.]

Tra il 1921 e il ’22, dinanzi al fenomeno dirompente dello squadrismo fascista, l’editore bolognese Licinio Cappelli diede alle stampe una serie di instant book a comporre una «collezione» intitolata «Il fascismo e i partiti politici»: già nel 1921 usciva Il fascismo e la crisi italiana del cattolico liberale Mario Missiroli e l’anno dopo Il fascismo: dati, impressioni, appunti del socialista Adolfo Zerboglio e Le origini e la missione del fascismo dello squadrista Dino Grandi con introduzione alla «collezione» del filosofo socialista Rodolfo Mondolfo; poi Il fascismo visto da repubblicani e socialisti con interventi di Guido Bergamo, Giuseppe De Falco, Giovanni Zibordi; e infine La contro-rivoluzione preventiva di Luigi Fabbri con il sottotitolo editoriale di Saggio di un anarchico sul fascismo.

Solo il testo di Fabbri rappresenta davvero un primo autentico «saggio» sul fascismo, non certo «al di sopra della mischia», come egli dichiara alludendo al volume pacifista Au-dessus de la mélée di Romain Rolland, ma senz’altro al di fuori delle ottiche anguste di partito e dei tatticismi della politica parlamentare. Già il titolo si propone di definire oggettivamente il fenomeno, anzi di rinominarlo: non «impressioni», non «il fascismo visto da…», ma un’inchiesta a tutto campo che dalla cronaca minuta, narrata con gusto vivo del racconto, cerca di risalire alla forma sociale del fascismo come «controrivoluzione preventiva». Fabbri guarda lontano, indossa talora i panni autoironici del «profeta», osserva nel presente l’avvenire e parla anche a noi con lucida, sorprendente vitalità. Nel ristampare questo saggio l’Assemblea antifascista permanente di Bologna non intende né proporre un’operazione archeologica o memorialistica, né istituire sommarie analogie tra il fascismo storico e la nostra inquietante attualità fatta di violenze neofasciste, ronde, populismo, razzismo, leggi autoritarie e manipolazione revisionista della memoria. Crediamo però che questo libro, pur con il suo stile semplice e alla buona, racchiuda una lezione importante e tuttora efficace sulle strutture del potere contemporaneo e sulle strategie del fascismo.
Nel 1922 Luigi Fabbri compiva quarantacinque anni, era maestro elementare a Corticella in provincia di Bologna e militante anarchico da oltre vent’anni. Nel piccolo sobborgo bolognese il «mêster Fabbri» era un personaggio che godeva di ampia considerazione, uguale e contraria a quello del parroco, e per questo aveva subìto intimidazioni e bastonature da parte dei fascisti. La sua voce è anzitutto quella di un testimone che ha visto una città «rossa» come Bologna diventare, nel volgere di pochi mesi, una roccaforte e anzi la «culla» del fascismo e della reazione antiproletaria. Di lì a poco, nel 1925 egli sarà uno dei tre maestri elementari a rifiutare il giuramento di fedeltà al regime di Mussolini e, in seguito a ciò, prenderà la via dell’esilio, prima a Parigi e poi a Montevideo, ove morirà nel 1935, nell’ora più buia della notte del Novecento. Non occorre qui seguire l’uomo, anche perché lo ha già fatto con acume e sensibilità la figlia Luce Fabbri in Luigi Fabbri. Storia d’un uomo libero (Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1996), ma importa piuttosto descrivere brevemente la sorte singolare della Controrivoluzione preventiva, il cui titolo, avverte Luce Fabbri, «ebbe tanta fortuna da diventare un luogo comune per la definizione del fenomeno». Nonostante alla fine del 1922 i fascisti distruggessero le copie ancora invendute del libro, tanto che oggi sopravvivono nelle biblioteche italiane meno di una trentina di esemplari dell’edizione originale, la tesi di quel saggio scritto in fretta negli ultimi tumultuosi mesi del 1921 ebbe fin da subito larghissima risonanza. Così, mentre il nome di Fabbri cade presto nell’oblio, il concetto di «controrivoluzione preventiva» attraversa invece per intero la storia intellettuale del Novecento. Habent sua fata libelli, anche i libri hanno il loro destino.

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Di fatto, la fortuna dell’analisi di Fabbri fu immediata. Dinanzi a un fenomeno allora nuovo e difficile da interpretare, la Controrivoluzione preventiva procedeva oltre ogni condanna moralistica delle violenze squadriste e delineava il formarsi di una cultura reazionaria di massa promossa dallo Stato e dalla borghesia «con la triplice azione combinata della violenza illegale fascista, della repressione legale governativa e della pressione economica derivante dalla disoccupazione». Per Fabbri si trattava di mostrare i «coefficienti» e i «fattori» che collegavano lo squadrismo ai nuovi assetti repressivi del potere statale, politico, culturale ed economico: le violenze fasciste non erano un fenomeno isolato o episodico, ma una funzione fondamentale della «reazione antiproletaria» come capovolgimento preventivo della lotta di classe attraverso cui la borghesia, senza rinunciare alle parvenze della legalità e del liberalismo, aggrediva le conquiste operaie e disciplinava la società. Così, fin dal 1923 la Conferenza comunista internazionale di Francoforte allegava al protocollo del dibattito una valutazione del Fascismo italiano come «una controrivoluzione preventiva (vorbeugende Konterrevolution) differente dalla controrivoluzione classica in quanto fa appello a degli slogan pseudoradicali». E ciò la dice lunga su quanto i movimenti rivoluzionari europei fossero negli anni Venti un ambito straordinario di scambi e di dibattiti anche al di là delle contrastanti esperienze ideologiche e organizzative. Un anno dopo il libro, la formula proposta da Fabbri cominciava a risuonare nelle diverse lingue dell’Europa anarchica, socialista e comunista.
Ma ancor più istruttivo per noi oggi è considerare la reazione della cultura fascista al libro di Fabbri. Con la Controrivoluzione preventiva egli aveva rinominato il Fascismo tratteggiando vivacemente il groviglio di interessi economici, coperture istituzionali e mitologie deteriori su cui si reggeva. Aveva illustrato, come fattore determinante del suo successo, la fragilità del socialismo riformista e legalitario. Non nominava mai Mussolini. Non aveva usato le parole del potere per parlare del potere. Contro questo penetrante ritratto del Fascismo alle prime armi, usciva a Milano nel 1923 un caposaldo del culto fascista della personalità: L’Uomo nuovo di Antonio Beltramelli. Per Fabbri il Fascismo era un aggregato eterogeneo di odio antioperaio, tornaconti padronali, ambizioni di carriera, fazioni litigiose e prepotenti: la sua «debolezza organica» era «il vuoto d’idee su cui poggia», l’incapacità di proporre un qualsiasi modello di società che non fosse «l’arbitrio instabile e contradditorio degli individui, dei gruppi inorganici, degli interessi ciechi, delle volontà impulsive, non unite da un’idea ma da un odio, dal solo desiderio distruttivo». Per questo il Fascismo aveva bisogno di «vane parole retoriche», di «formule vaghe», di mitologie e «simboli» unificanti. E Fabbri è eccezionalmente attento a smascherare anche l’offensiva simbolica del Fascismo e a mostrarne la funzione complementare rispetto alla pratica della violenza squadrista. Non sorprende che proprio la capacità di scomporre e ridefinire il Fascismo come «controrivoluzione preventiva» innervosisca e indigni Beltramelli, il quale non trova altro da contrapporre a Fabbri che la retorica verbosa del «Duce» e dell’«Uomo nuovo», in grado di plasmare la storia con la «passione sua mortale e magnifica»:

«Ho osservato inoltre, come in molti fra gli studi pubblicati ultimamente e riguardanti le origini e lo sviluppo del Fascismo, si ostenti, da taluni autori, di porre in ultimo piano la figura di Benito Mussolini o non se ne parli affatto, come fa, ad esempio, l’anarchico Luigi Fabbri nella sua monografia che ha per titolo La contro-rivoluzione preventiva. Mezzucci pietosi che non fanno e non ficcano, perché possono darsi tutte le condizioni favorevoli del mondo alla nascita di un movimento storico, ma se non appare l’Uomo destinato e quello che possa assommare nel suo fascino, nella tetragona forza della sua volontà, nella gagliardia del suo ingegno, nella fierezza del suo coraggio dette condizioni e si faccia banditore del nuovo verbo e viva la passione di questo verbo disperatissimamente, oltre ogni altra cosa del mondo, tanto da preferire l’ultimo silenzio al fallimento di questa passione sua mortale e magnifica, se quest’uomo non appaia, l’umanità non potrà beneficiare delle condizioni favorevoli invano apparse e invano vissute».

La Controrivoluzione preventiva è un libretto di 100 pagine. Ma per cancellarne il discorso lucido ed rigoroso il Fascismo dovette distruggerne tutte le copie che trovò e contrapporvi un volume oratorio e altisonante di ben 600 pagine a enorme tiratura come appunto è L’Uomo nuovo.
Non si tratta di qualcosa che riguarda soltanto il passato. Anche oggi lo squadrismo simbolico dei neofascisti risulta complementare al loro squadrismo reale. Non vi sono solo le aggressioni, gli accoltellamenti, gli omicidi (censiti sul sito web ecn.org/antifa). Vi sono anche quei gesti che passano per provocazioni artistiche o iniziative culturali, con la complicità di giornalisti affamati di notiziole piccanti e talora amici sottobanco dei neofascisti. Ad esempio nel dicembre 2008, in occasione dell’anniversario della Strage di Piazza Fontana che l’Assemblea Antifascista Permanente ricordava con una manifestazione, CasaPound ha cercato di presentare a Bologna un libro-intervista al terrorista nero Pierluigi Concutelli, uno dei fondatori di Ordine Nuovo, l’organizzazione che eseguì quella strage: un caso di provocazione esplicita, di rivendicazione allusiva. Qualche mese dopo a Milano, nell’anniversario dell’uccisione di Eugenio Curiel, partigiano ebreo ammazzato dai repubblichini il 24 febbraio 1945, i soliti ignoti hanno imbrattato di strisce di vernice rossa la lapide commemorativa e vi hanno deposto sopra 30 bossoli calibro 30: un altro caso di rivendicazione allusiva o, se si vuole, di intimidazione. Tra le varie iniziative degli squadristi simbolici vi è anche la storia diffusa da CasaPound che narra di un loro simpatizzante omosessuale, P.D., 45enne dei Castelli Romani, che, in procinto di sottoporsi a un’operazione per cambiare sesso, chiedeva «una garanzia da parte della curia vescovile riguardo al suo desiderio di farsi suora ed entrare in convento»… Le agenzie di stampa, sempre compiacenti verso i «fascisti del terzo millennio», hanno diffuso la notizia, ma si trattava solo di una fandonia — dichiara CasaPound — per criticare il Partito Democratico «che cambia pelle ogni due settimane». O piuttosto per offendere la scelta trans, paragonandola a un partito ormai privo d’identità: un’offesa allusiva, un insulto solo simbolico. Analogamente, nel febbraio del 2009 a Palermo, dinanzi alla sede del collettivo Malefimmine, comparivano scritte di minaccia come «collettivo Maletroie» firmato CasaPound e «compagna quando ce vedi te se bagna». Né va allora dimenticato che il romanzo futurista di Filippo Tommaso Marinetti Mafarka si fonda sulla descrizione sadico-eroica di uno stupro di massa: «Scrissi dunque “Lo stupro delle negre” perché da una gran fornace torrida di lussuria e di abbrutimento potesse balzar fuori la grande volontà eroica di Mafarka», dichiarava Marinetti nel 1910. E il forum di CasaPound si chiama appunto vivamafarka… Ancora oggi la nuova «controrivoluzione preventiva» in atto è una strategia che associa insieme la violenza extralegale, le connivenze istituzionali, la manipolazione mediatica, il nazionalismo razzista e sessista, la cultura intimidatoria dello squadrismo simbolico.
Ma torniamo al passato remoto. Importa infatti sottolineare come l’analisi di Fabbri abbia contribuito al formarsi in Europa di una coscienza antifascista rivoluzionaria fin dagli anni Venti e Trenta. Anche nella Spagna del 1936 sarà proprio la lezione di Fabbri che permetterà di criticare ogni interpretazione del conflitto civile come semplice «guerra del antifascismo contra el fascismo» per considerarlo invece — scriveva Horacio Badaraco nel 1937, citando Fabbri — quale irrinunciabile «guerra social» operaia contro la «contrarrevolución preventiva» guidata dal generalissimo Francisco Franco. Non occorre qui moltiplicare gli esempi e basti dire che persino Alexandre Koyré, il grande studioso di Galileo e di Newton, rifletterà nel 1945 sulla specificità del nazifascismo come esempio di «quinta colonna» e di «tradimento» dell’oligarchia borghese contro la società civile:

«Si même avec cette aide elle ne réussit pas à réaliser ses desseins, l’oligarchie dirigeante de la société bourgeoise se transformera en “ennemi intérieur” et la “cinquième colonne” fera son apparition. […] Elle est, essentiellement, un phénomène de contre-révolution, et même plus exactement de contre-révolution préventive. Elle est aussi, et tout aussi essentiellement, un phénomène de trahison».

Ma ormai la memoria del libro di Fabbri si andava cancellando e il concetto di «controrivoluzione preventiva», declinato nei modi più diversi, era diventato patrimonio comune dell’antifascismo europeo come sinonimo di dittatura e totalitarismo. La formula aveva preso congedo dal suo autore.

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Dopo il 1945 la sconfitta del nazifascismo e la stabilizzazione bipolare del secondo dopoguerra avrebbe potuto rendere obsoleta la tesi della «controrivoluzione preventiva», come interpretazione storica di un regime autoritario ormai deposto. Eppure l’invenzione terminologica di Fabbri racchiudeva un’intuizione profonda delle nuove forme repressive della società borghese: con il Fascismo la controrivoluzione non veniva dopo un sovvertimento sociale per ribaltarlo e restaurare con la forza il regime antecedente, ma doveva prevenire ogni possibilità di rivolta; non era più un evento collocato nel tempo, ma diventava una funzione permanente in anticipo sui fatti: «la sola idea di costituire nuclei di “arditi del popolo” è stata preventivamente repressa». Tuttavia la definizione coniata da Fabbri, pur senza alcuna dicitura d’autore, non andò fuori corso. Fuggito dalla Germania nazista agli Stati Uniti nel 1934, Herbert Marcuse — che in gioventù aveva militato nel Partito socialdemocratico tedesco — riprende e riarticola la categoria analitica della «controrivoluzione preventiva» («preventive counterrevolution») dopo l’insurrezione globale del maggio 1968. Ereditandolo dal dibattito tedesco degli anni Venti, Marcuse reinterpreta ed estende il concetto di «controrivoluzione preventiva» come asse fondamentale della dialettica contemporanea tra contestazione e repressione, tra la «controrivoluzione» e la «rivolta». In apertura di Counterrevolution and Revolt del 1972, uno dei libri chiave degli anni Settanta, egli descriveva così la risposta capitalista alla destabilizzazione prodotta dai nuovi movimenti sociali su scala planetaria:

«Il mondo occidentale ha raggiunto un nuovo stadio di sviluppo; a questo punto la difesa del sistema capitalista impone, all’interno e all’estero, l’organizzazione della controrivoluzione che attua nelle sue manifestazioni estreme gli orrori del regime nazista. […] Si tratta di una controrivoluzione in larga misura preventiva, interamente preventiva nel mondo occidentale dove non ci sono né rivoluzioni recenti da annullare né rivoluzioni nuove all’orizzonte. Eppure la paura della rivoluzione che ne costituisce il denominatore comune lega nei vari stadi e aspetti la controrivoluzione, ne percorre tutta la gamma, dalle democrazie parlamentari alle dittature aperte, passando per gli stati di polizia. Il capitalismo si riorganizza per fronteggiare la minaccia di una rivoluzione che sarebbe la più radicale della storia, la prima vera rivoluzione storico-mondiale».

Al di là delle discontinuità esteriori, per Marcuse la storia del Novecento doveva essere riletta unitariamente come avvicendarsi di diverse forme storiche di «controrivoluzione preventiva» secondo tre fasi successive: 1) l’ascesa dei fascismi in Europa, caratterizzata dalla «liquidazione» violenta di «un’intera generazione di rappresentanti rivoluzionari della classe operaia», dalla «delega della sovranità economica all’apparato statale fascista», dalla trasformazione delle classi subalterne in masse «uniformate» e convinte dalla propaganda del loro «privilegio» come nazione rispetto al «sacrificio» di gruppi stranieri, inferiori, marginali; 2) la stabilizzazione postbellica, segnata dal riorganizzarsi del sistema capitalista sotto l’egemonia statunitense, dalla spartizione concordata del mondo in due aree d’influenza, dalle politiche di coesione e controllo culturale per normalizzare le condotte dissidenti; 3) la rivolta degli anni Settanta, contro la quale riacquista una nuova centralità l’apparato di polizia: all’interno come strategia di contrasto preventivo delle spinte rivoluzionarie (pestaggi, schedature, discriminazioni), all’estero come containment policy contro i movimenti di liberazione nei paesi coloniali, per evitare la diffusione concomitante di «due, tre, molti Vietnam» nelle periferie del mondo e nei centri urbani d’Occidente. In quest’ultima fase, scrive Marcuse, «le forze della legge e dell’ordine sono state trasformate in forze al di sopra della legge». Tuttavia, negli Stati Uniti il peso della repressione non investe la «classe operaia», ma i fermenti di opposizione radicale, anzitutto «le università e i militanti di colore», con il dispiegamento pervasivo nella società di «un grande esercito di agenti in borghese». È ancora una «controrivoluzione preventiva», ma per Marcuse sarebbe fuorviante parlare genericamente di «regime fascista»:

«Il fattore decisivo è un altro: si tratta di capire se la fase attuale della controrivoluzione (preventiva), e cioè la fase democratico-costituzionale, stia preparando il terreno a una successiva fase fascista oppure no».

Fin dagli anni Settanta quell’interrogativo — se «la controrivoluzione […] può produrre fascismo» — inquieta i movimenti di protesta e l’intelligenza critica che indaga le forme del dominio capitalista. Basti dire a titolo di esempio che Michel Foucault, pur criticando la concezione marcusiana del potere come semplice «repressione», osservava nel 1977 che «la non analisi del fascismo è uno dei fatti politici importanti di questi ultimi trent’anni». E ancora nei Commentari sulla società dello spettacolo del 1988 Guy Debord alludeva alle stragi di stato come a «una sorta di guerra civile preventiva». Ma non è questo l’ambito per esplorare tali sviluppi e problemi.

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Resta infine da sottolineare una lezione di metodo. Ben prima della marcia su Roma, nella lucida consapevolezza della sconfitta e nella convinzione che, per combattere il male, «bisogna guardarlo in faccia, esaminarlo», il saggio di Fabbri ha colto nei suoi tratti fondamentali il nesso costitutivo che lega il fascismo alla controrivoluzione. Delucidando questo rapporto, la Controrivoluzione preventiva ha inaugurato di fatto un campo d’indagine storico-politica che va ben oltre le fortune della formula che dà il titolo al libro. Non è un caso se, dalla metà del Novecento fino a oggi, la riflessione sul pericolo fascista ha riproposto a più riprese e in congiunture diverse il problema cruciale del fascismo come forma particolare di controrivoluzione, enunciato con rara acutezza di sguardo proprio da Fabbri.
Alla cerniera tra la Controrivoluzione preventiva e il riemergere della sua problematica dopo il Sessantotto, risulta allora di particolare importanza un testo del comunista libertario Daniel Guérin, Fascisme et grand capital. Scritto «dopo la presa del potere da parte di Hitler, agli inizi del 1933, e dopo il tentativo di putsch fascista del 6 febbraio 1934» (cioè il tentato assalto al Parlamento francese per mano dei fascisti dell’Action française), e pubblicato per la prima volta nel 1936, Fascismo e gran capitale si propone di «diagnosticare la vera natura del fascismo»: «Ai miei occhi», scriverà Guérin nel 1956, «il fascismo era una malattia. Per descrivere un male nuovo e ancora poco conosciuto, un medico non dispone d’altra risorsa se non quella di compararne minuziosamente i sintomi…». Nel cuore di un nuovo momento critico, riemerge — negli stessi termini, ma in forma più complessa rispondente alla nuova situazione — la necessità di esaminare il male per combatterlo sostenuta dalla Controrivoluzione preventiva nei primi anni del decennio precedente. Per Guérin il nazifascismo rappresenta l’espressione politica del «grande capitale» che — dinanzi alla crisi — rifiuta e sopprime i propri antichi ideali di «libertà» e «democrazia» ormai incompatibili con l’egemonia borghese: «allora la borghesia distrugge rabbiosamente i suoi vecchi idoli e i teorici dell’antidemocrazia divengono i maestri del suo pensiero». Mussolini dichiarava nel 1926: «Noi rappresentiamo l’antitesi netta, categorica, definitiva […] dei principî del 1789». E Goebbels nel 1933: «L’anno 1789 sarà cancellato dalla storia». Ma proprio il carattere controrivoluzionario dei fascismi europei e il loro rapporto organico con il grande capitale poneva la questione se quei regimi avrebbero potuto ripresentarsi ancora sotto nuove forme. Anche in questo caso Fabbri è avanti un passo: nell’ultimo capitolo del libro egli pronostica che il Fascismo «prima o poi finirà», prospettando un articolato quadro delle diverse forme possibili della sua inevitabile fine; ed è qui che, come in contropartita, egli formula una questione che non ha cessato di riproporsi in diverse circostanze fino ad oggi: la possibilità del Fascismo di riprodursi oltre la sua caduta.

«Tutto ciò viene a confermare il già detto, che il fascismo è un ramo del grande tronco statale-capitalistico, od una filiazione di esso. Combattere il fascismo lasciando indisturbato il suo perenne generatore, ed anzi illudersi di trovare in questo un difensore contro quello, significa continuare ad aver sempre sulle spalle, ogni giorno più pesanti ed oppressivi, e l’uno e l’altro. Uccidere il fascismo è possibile, sol che l’azione di difesa contro di lui, imposta dalle circostanze, non vada scompagnata dall’attacco alle sue sorgenti: il privilegio del potere ed il privilegio della ricchezza. Ma ucciderlo è necessario, e bisogna che a ciò riesca direttamente e con le sue forze il proletariato, perché se il fascismo fosse semplicemente addormentato o riassorbito dalle istituzioni attuali, esso potrebbe sempre o almeno più facilmente riprodursi. La borghesia ha imparato il modo di servirsi di quest’arma; e se il proletariato non gliene toglie la voglia, dimostrandole coi fatti che sa spezzargliela nelle mani, essa anche se per ora la deponesse, tornerà ad impugnarla alla prima occasione».

Alla tesi conclusiva di Fabbri potrebbero allora accostarsi due frasi lucidamente anticipatrici — tratte dalle prefazioni di Guérin a Fascismo e gran capitale — che perimetrano lo spazio di un problema ancora decisivo per il nostro presente. Marzo 1945: «Domani, le grandi “democrazie” potrebbero riporre con tutta naturalezza l’antifascismo nel magazzino degli attrezzi usati. Già fin d’ora, questa parola magica, che ha fatto insorgere i lavoratori contro l’hitlerismo, viene considerata con sospetto e avversata non appena serve a riaggregare tra loro gli avversari del sistema capitalistico». Novembre 1956: «Non bisogna dunque lasciarsi ipnotizzare dal pericolo di un ritorno offensivo del fascismo “puro”: la controrivoluzione potrebbe riapparire in altre forme». Né andrà pertanto dimenticato che in Italia vi è stata una forte continuità tra Fascismo «riassorbito dalle istituzioni» e Repubblica. Nel 1960 si calcolò che 62 dei 64 prefetti in servizio erano stati funzionari fascisti. Lo stesso valeva per tutti (tutti…) i 135 questori e per i loro 139 vice. Poi, dopo il Sessantotto, vennero le stragi.

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Oggi forse siamo giunti a una soglia storica che potrà dare una risposta alla vecchia domanda rinnovata da Marcuse. Sotto i nostri occhi sono stati via via riattivati in Italia alcuni dei dispositivi del nazifascismo che operarono dal 1938 al 1945: il rastrellamento di corpi clandestini da espellere, la detenzione in campi per aver commesso il «reato» di esistere, i muri di separazione etnica, l’istituzione di classi separate per «stranieri», l’accesso differenziale alle cure mediche, una nuova politica sempre più cupa e aggressiva di «salute pubblica». Negli anni Settanta la fascistizzazione era un fenomeno anzitutto di vertici statali, di continuità istituzionali tra Fascismo e Repubblica, di tentati colpi di stato, di bombe nelle piazze, di complotti e segreti nell’ombra. Adesso è invece un fenomeno diffuso, capillare, in gran parte alla luce del sole, articolato anzitutto sul razzismo e alimentato da tv, governi, rotocalchi, amministrazioni locali. Si consideri quanti vigili, poliziotti, carabinieri, consigli comunali sono stati protagonisti negli ultimi anni di aggressioni o provvedimenti razzisti contro rom e migranti: morti anomale, pestaggi, torture, arresti ingiustificati, intimidazioni, allontanamenti forzati, ordinanze antimigranti, prepotenze di ogni genere. Il razzismo in Italia assomiglia ormai a una Bolzaneto a cielo aperto. Ed è una «strategia della tensione» adattata ai tempi nuovi: non più di vertice, ma diffusa, a bassa intensità. Gli omicidi fascisti e razzisti sono ormai una strage a rate. Persone ignare e inermi, uccise per una sigaretta, una parola, un pacco di biscotti.
Proprio il clima di violenza xenofoba e «securitaria», fomentato in questi anni da politici, sindaci, giudici e giornalisti, ha offerto nuova agibilità a gruppi e partiti neofascisti e ha consentito la riorganizzazione della destra. Non si tratta solo di un consolidamento operativo, ma anche simbolico. A ben riflettere, l’attuale squadrismo neofascista non avrebbe efficacia se non vi fosse un disciplinamento autoritario diffuso che occorre ostacolare in ogni sua forma: il perbenismo aggressivo, il patriottismo, la propaganda martellante di «paure» razziste e omofobe, il familismo opprimente, il sessismo, la volontà di punire chi non fa figli bianchi italici cattolici, la persecuzione contro prostituzione e aborto, la manipolazione della memoria pubblica. Apparati statali e organizzazioni neofasciste collaborano attualmente per costruire una cultura di massa dell’odio e della discriminazione verso i presunti «diversi» e per convincere le «classi espropriate» — è questo uno dei caratteri del nazifascismo secondo Marcuse — a considerarsi «come popolazione privilegiata nei confronti dei “gruppi stranieri” sacrificati».
Per questo crediamo che oggi l’antifascismo non costituisca affatto un residuo logoro del passato, ma un campo vivo e irrinunciabile di pratiche e resistenze contro i processi di disciplinamento sociale, nella scuola, sul lavoro, nel privato, nella famiglia, nella società. Come ha mostrato anche il recente Festival sociale delle culture antifasciste svoltosi a Bologna dal 29 maggio al 2 giugno 2009, si tratta di raccogliere le sfide della contemporaneità e sperimentare l’antifascismo del XXI secolo. Catilina, lo pseudonimo che Fabbri si era scelto in gioventù, parla ora a noi. Catilina parla ancora.