di Valerio Evangelisti

JackLondon-GuerraDiClasse.jpg[Questo articolo è la mia introduzione a Jack London, Guerra di classe. Il sogno di Debs. Saggi sulla lotta di classe negli Stati Uniti e un racconto, ed. Gwynplaine, 2009, pp. 192, € 14,00.]

Anzitutto liberiamoci delle stupidaggini. C’è chi di recente (Nicola Lagioia) ha messo in dubbio le convinzioni socialiste e rivoluzionarie di Jack London, tanto da definire i conflitti sociali che gli stanno a cuore “occasione”, “contesto”, “apparato scenografico”. Ora, nell’edizione francese delle opere di London, curata da Francis Lacassin (Laffont, 1990), il volume sesto, dedicato ai saggi, ai romanzi, ai racconti, agli articoli di London incentrati sul tema della lotta di classe conta quasi duemila pagine. E mancano molti suoi interventi sulle riviste Masses, The Appeal to Reason, International Socialist Review e altri periodici di sinistra, nonché i testi, mai registrati, di centinaia di conferenze e di comizi a favore prima del Socialist Labor Party, poi del Socialist Party of America.

Come si fa a dire che il conflitto di classe fosse, per l’autore di una quantità tanto imponente di interventi, puro “apparato scenografico”? Certi critici e prefatori dovrebbero, prima di pronunciarsi, informarsi un po’ meglio sull’assieme delle opere dello scrittore che intendono analizzare, e magari sulla sua vita — se non è chiedere troppo. Certo, Lagioia dice, a sua giustificazione, di appartenere a una generazione “cresciuta senza Dio e senza Marx”. Me ne dispiace per lui. Jack London, di sicuro, non era della stessa pasta.
Tutta la prima parte di uno dei suoi romanzi più noti (senza essere dei migliori), Il tallone di ferro (1907), è l’esposizione, in forme divulgative, delle tesi di Marx ed Engels sui più svariati temi: la teoria del plusvalore, le crisi da sovrapproduzione, lo sfociare in guerra delle stesse, l’azione rivoluzionaria, l’inevitabile reazione di une borghesia disposta a dimenticare, di punto in bianco, gli ideali democratici di cui si dice portatrice. Il resto è una critica serrata della socialdemocrazia che, con la sua politica di compromessi, conduce il proletariato alla disfatta. Affrontare temi simili per una vita intera (London si dimise dal partito socialista americano solo l’anno — 1916 — della sua morte, rimpiangendo i tempi del più radicale Socialist Labor Party, a cui aveva aderito nel 1896) sarebbe puro orpello, occasionale e insincero? Non potrebbe crederlo nessun commentatore in buona fede.
Tanto più che London, oltre che ne Il tallone di ferro, tornò a trattare dello scontro sociale e delle teorie marxiane in una quantità di occasioni. Si pensi, oltre ai saggi raccolti nel presente volume, al racconto molto noto Il sogno di Debs (1909), in cui divulga i principi del sindacalismo rivoluzionario, e illustra l’idea di uno sciopero generale capace di mettere termine al capitalismo; o al meno conosciuto I favoriti da Mida (1909), che ha al centro una società segreta proletaria che si incarica di giustiziare, sistematicamente, i magnati dell’industria e della finanza. Erano questi, probabilmente, i “sogni di London” quando conduceva attraverso l’America una vita grama, passando da un lavoro faticoso a un altro più penoso ancora, sperimentando di persona tutte le forme possibili di sfruttamento.
Ciò lo segnò al punto che, divenuto ricco e famoso, e proprietario della fattoria Beauty Ranch (un’esperienza narrata in chiave quasi favolistica nel romanzo La Valle della Luna, 1913), concesse ai propri braccianti salari più che degni e la giornata lavorativa di otto ore, malgrado i malumori e i rimbrotti degli altri proprietari di quella regione della California. Ospitò anche, gratuitamente, tutti i vagabondi che bussavano alla porta della sua abitazione, la “Casa del Lupo” (“Lupo” era uno dei soprannomi di London). Allora, probabilmente, non credeva più nella rivoluzione (La Valle della Luna contiene pagine magnifiche sullo sciopero dei ferrovieri americani e sul suo fallimento); e, mentre accusava il riformismo socialista della disfatta del movimento operaio, in parallelo imputava a se stesso di condurre una vita che lo aveva separato dal proletariato nel cui seno era nato e cresciuto, e per il quale si era battuto come un leone (la “belva bionda di Nietzsche”, per citare Il tallone di ferro).
E’ in questa chiave che va interpretato Martin Eden (1909), uno dei capolavori di London, cupo presagio che anticipa di sette anni il suicidio dell’autore. Eden, figlio delle classi subalterne, cresciuto in tutti gli inferni del capitalismo più spietato, cerca il proprio riscatto nell’affermazione individuale, come scrittore e come uomo. Imbevuto di teorie superomistiche, affascinato da Spencer e dalla sua fede in un progresso inevitabile, cultore dell’individualismo più radicale (la vita sarebbe una corsa di cavalli, in cui devono prevalere gli animali di razza), vede soddisfatte tutte le sua aspirazioni. E’ a quel punto che coglie la solitudine della sua condizione. Ha vinto, ma non gli è rimasto attorno nessuno dei vecchi compagni di lotta e di lavoro. La vita che conduce è falsa e ambigua, e lui non riesce più a sentirla come propria. Passando di disagio in malessere, odiando come odia l’ipocrisia (detesta le opere liriche per ciò che hanno di artefatto), finisce per suicidarsi. L’alienazione cui Eden si è condannato è troppo dolorosa, per essere tollerata.
Racconto autobiografico? In parte sì, ma non per ciò che riguarda l’“ideologia” — metto il termine tra virgolette per rispetto alle definizioni marxiane – fatta propria dal protagonista. Le contraddizioni vissute da Martin Eden sono, in fondo, meno stridenti di quelle sperimentate da Jack London stesso. Partecipante nel 1894 alla marcia di un milione di disoccupati e di affamati, la Kelly’s Army, su Washington, e lì convertito alle idee egualitarie (racconterà l’esperienza, nel 1907, in uno straordinario libro di ricordi: La strada); arrestato nel 1897 per un comizio improvvisato, valutato dalla polizia “incendiario”, a favore del Socialist Labor Party; emarginato nel 1902 nelle vie di Londra, in una discesa all’inferno che narrerà in una testimonianza memorabile (Il popolo dell’abisso, 1903); candidato due volte sindaco di Oakland (nel 1901 e nel 1905) per il Socialist Party of America; conferenziere e agitatore in ambito universitario, quale presidente dell’Intercollegiate Socialist Society, di cui era segretario Upton Sinclair; finanziatore di giornali sovversivi e persino di comitati di sciopero, London fu al tempo stesso uno degli scrittori più letti e amati del suo tempo, e come tale ammesso nei salotti (in cui non rinunciava a preconizzare alla borghesia la sua imminente estinzione), e titolare di guadagni favolosi — se non fosse stata altrettanto favolosa la rapidità con cui li dilapidava.
In Martin Eden confliggevano l’umile origine e la ricchezza acquisita; in Jack London, molto più acutamente, il benessere (che qualche compagno non scordava, di tanto in tanto, di rimproverargli) e le convinzioni che avevano improntato tutta la sua esistenza. Ciò non toglie, naturalmente, che il suo socialismo non fosse esente da contraddizioni, come tutto il socialismo della sua epoca, soprattutto negli Stati Uniti. Colpito da Nietzsche (lo si nota in Il lupo dei mari, in Il tallone di ferro, in Martin Eden ecc.), cercava di conciliarlo con Marx, come facevano alcuni sindacalisti rivoluzionari. La sua soluzione narrativa consisteva nel condannare alla sconfitta, seppur grandiosa, chi si affidava al solo Nietzsche (Eden, Lupo Larsen), mentre una vittoria magari postuma poteva arridere a chi, ai valori individuali, sapeva aggiungere la consapevolezza che non può esistere superuomo che non sia di massa. London, innamorato in gioventù della forma fisica personale, poi condannato quarantenne, dalle droghe e dall’alcool, a un rapido decadimento, vedeva nell’azione collettiva una soluzione ai problemi propri (lo dice a tutte lettere in un saggio diventato celebre, Come sono diventato socialista, 1903), e nell’alleanza tra sfruttati, cioè tra debolezze, la nascita di una forza capace di sovrastare quelle dominanti.
Il nemico che London combatte, anche entro se stesso, è l’individualismo, bersaglio preferito dei suoi comizi. Sembra, in prosa, esaltare l’esatto contrario. Ogni tanto arriva a dire che la supremazia dell’uomo bianco è inevitabile (per esempio nel romanzo L’Avventura, 1913), o a mettere in scena un conflitto tra ariani e classi inferiori, etnicamente contaminate (L’ammutinamento dell’Elsinore, 1912). A chi, di parte fascista — pare incredibile, ma oggi in Italia ci si può tranquillamente e impunemente definire come tali — sostiene queste interpretazioni, è piuttosto facile replicare.
Posto che un’ala del socialismo dei primi del ‘900 era indubbiamente razzista e colonialista — in Italia è il caso di Antonio Labriola, invocato come precursore dai comunisti — Jack London si colloca altrove. Crede in un primato di civiltà della razza bianca, non c’è dubbio. Attribuisce a un suo segmento, gli anglosassoni, l’invenzione dello sport che meglio rappresenta l’indole umana: la boxe. Dai colpi rapidi come le parole inglesi (in La scimmia e la tigre, 1910).
Tuttavia, quando deve celebrare il pugile che idolatra, il nero Johnson, vincitore sul bianco Jeffries, London cambia completamente registro: “Ancora una volta Johnson ha inflitto una disfatta al rappresentante scelto della razza bianca, e questa volta il migliore di tutti. Come altre volte, per lui è stato un gioco” (Il nero non ha mai dubitato, non ha mai temuto, 1910). Seguono lodi non alla forza di Johnson, ma alla sua intelligenza, alla sua determinazione, al suo senso dell’umorismo. Ha demolito il colosso bianco perché motivato. Ha incarnato uno sport anglosassone meglio di un avversario effettivamente anglosassone perché mosso da una convinzione, capace di fargli vincere la paura.
E’ alla luce dei reportages da bordo ring, e dalle novelle sul mondo della boxe, che dovrebbe essere correttamente interpretato un racconto celebre come Il messicano (1911). Lotta individuale, sì, ma condotta allo stremo delle forze per procurare fondi alla causa rivoluzionaria; nell’ambito di un’attività sportiva che l’autore vedeva come sintesi delle pulsioni umane. Cioè un conflitto in cui i muscoli contano meno della volontà, della capacità di soffrire, del respiro di un sostegno collettivo. Il povero messicano non avrebbe mai potuto avere la meglio se non fosse stato parte di un popolo di umiliati in cerca del loro riscatto. Ciò può sfuggire al rappresentante di “una generazione cresciuta senza Dio e senza Marx”. Peccato che, altrimenti, il racconto non abbia senso. Peccato, altresì, che senza partecipazione ideale ed emotiva sia impossibile capire che il superuomo nietzschiano cui si richiama London sia una collettività capace di sommare i propri limiti per superarli, per radunarsi a pugno e con quello colpire.
Quanto alla leggenda del London razzista, si dimenticano — o, quel che è peggio, non si conoscono — i suoi interventi contro gli atroci linciaggi dei neri del Mississippi, o contro l’antisemitismo, o contro il razzismo nei confronti dei giapponesi. Si scorda o si ignora che molti dei suoi bellissimi Racconti dei mari del Sud (1911) denunciano il colonialismo ai danni delle popolazioni asiatiche. Che il cinese Ah-Cho fu da lui scelto, e messo al centro di un racconto, per esemplificare le dinamiche dello sfruttamento fuori dai confini americano-europei (Il Chinago, 1909).
Sì, ma L’avventura, L’ammutinamento dell’Elsinore? Il secondo romanzo, pubblicato nel 1914 e poco conosciuto in Italia, narra la rivolta di una massa umana miserabile, deforme, semi-idiota contro i “signori” che governano un vascello a quattro alberi. Il riferimento insistito è a Il tramonto dell’occidente di Spengler, che sulla nave troverebbe la sua esemplificazione. Ciò ha fatto pensare a uno dei peggiori biografi di London (Robert Baltrop, Jack London: l’uomo, lo scrittore, il ribelle, Mazzotta, 1978) che ormai l’autore avesse rinnegato i propri ideali, e si fosse convertito a un’eugenetica proto-nazista.
Niente affatto. A parte che London, quasi negli stessi mesi, scrisse La forza dei forti, uno dei suoi testi narrativi socialisti più noti ed energici, è un errore identificare il suo punto di vista con quello dello snervato e romantico scrittorucolo che, nel romanzo, narra la storia. Anche Lagioia riconosce l’incredibile capacità di London di indossare panni altrui. Sa descrivere meravigliosamente Lupo Larsen, ma non è Lupo Larsen. Ci fa palpitare con Martin Eden, ma non è Martin Eden. Sull’Elsinore lo possiamo forse identificare con Mellaire, il secondo ufficiale. Colui che dichiara di odiare i sottoproletari che cercano di impadronirsi della nave, ma, in egual misura, i privilegiati che li hanno ridotti in simili condizioni a furia di sfruttarli, generazione dopo generazione. Il pensiero corre a La macchina del tempo di Wells (uno degli scrittori più amati da London), e al conflitto tra i Morlocks, figli degradati della classe operaia, e gli Eloi, discendenti eterei dei loro sfruttatori.
E’ comunque certo che London, nel 1914, nutriva poche speranze sul proletariato quale “belva bionda” che avrebbe azzannato il sistema alla gola. La sua vita era sconvolta da fallimenti, disgrazie, lutti. Il suo partito aveva abbracciato la via del compromesso e, due anni dopo, gli avrebbe rimproverato il suo interventismo e la vita da ricco (più presunta che reale) che conduceva.
L’ultimo scritto socialista di London è comunque datato 6 marzo 1915: una prefazione a un’antologia, The Cry of Justice, dell’amico Upton Sinclair. Un anno dopo dava le dimissioni dallo SPA, rievocando le lotte gloriose del Socialist Labor Party. Nel novembre del 1916 si suicidava.
Privo di dimensione collettiva, l’Übermensch di Nietzsche, ritemprato per decenni alla luce di Marx, rivelava la propria debolezza. E lasciava cadere il corpo sfatto di uno scrittore che era stato un grande socialista, e un grande rivoluzionario. Un superuomo che cercava e trasmetteva amore e solidarietà, coerente fino in fondo.