frecciabr.gif L’antiterrorismo alla francese
di Serge Quadruppani

julien_coupat.jpgAll’alba dell’11 novembre 2008, durante un’operazione di grande spettacolo trasmessa in diretta dalle televisioni appositamente avvertite, vengono arrestare venti persone tra Parigi, Rouen, l’Est e il Centro della Francia; l’operazione è battezzata «Taiga» e mobilita 150 poliziotti. Unità speciali con passamontagna, un paesino occupato da blindati, sospetti trasportati coperti da indumenti e circondati da incappucciati, le immagini che quel giorno si offrono ai francesi proclamano la pericolosità delle persone arrestate, così come il regime sotto il quale nove di queste sono detenute: grazie alla legislazione anti-terrorismo quattro giorni di fermo di polizia. I media riportano che sono membri dell’«ultra-sinistra anarco-autonoma» e messi in relazione a cinque sabotaggi di alcune linee di collegamento delle ferrovie francesi nei dipartimenti dell’Oise, Yonne, Seine-et-Marne e Moselle. Lungo i cavi di alimentazione dei treni ad alta velocità erano stati messi dei ferri per il cemento armato, che al passaggio del primo convoglio avevano provocato il loro blocco e dunque ritardi su molti treni. La ministra dell’Interno Michèle Alliot-Marie si spertica in dichiarazioni di trionfo. Sarkozy si complimenta con la polizia. Si parla di documenti, di sequestro di materiale e di tracce di Dna.

Gli arrestati erano sorvegliati da mesi da membri dell’Unità di coordinamento di lotta al terrorismo (Uclat) con attrezzature tecnologiche di punta. Allo scadere delle 96 ore di interrogatorio, nove persone tra i 23 e i 34 anni, tra cui tre donne e quello che viene presentato come il leader del gruppo, Julien Coupat, diplomato alla Scuola superiore di scienze economiche e commerciali (Essec) ed ex studente di Sociologia, vengono denunciate per associazione sovversiva con finalità di terrorismo. Delle nove, quattro vengono rilasciate e cinque, tra cui Coupat, incarcerate.
Quest’ultimo, insieme ad altri accusati, viveva in una specie di comunità nel cuore della Francia rurale. Uno degli arrestati gestiva il negozio di alimentari del paesino ed era presidente del comitato dei festeggiamenti. Il procuratore della repubblica parla di un’organizzazione chiamata «cellula invisibile». Le fonti della polizia in contatto coi giornalisti spiegano che Coupat e la sua compagna erano sorvegliati da quando, qualche mese prima, erano stati segnalati dall’FBI, perché durante un controllo negli Stati Uniti erano risultati in possesso di documentazione anarchica.
La leggerezza del fascicolo d’accusa per come viene mediatizzato non tarda a stupire gli spiriti critici. «Cellula invisibile» è una denominazione inventata a partire dal nome collettivo («Comitato invisibile») che firma un libro, L’insurrezione che viene, distribuito da oltre un anno da una prestigiosa casa editrice di Parigi con tanto di terre al sole (La Fabrique). Yldune_Levy.jpgLe colpevoli tracce di Dna scompaiono dalle dichiarazioni del ministero della Giustizia e degli Interni (per forza, non ce n’è una) ed emerge che l’unico elemento a carico è la partecipazione di diversi arrestati a manifestazioni e la presenza di due di loro (Coupat e la sua compagna, Yldune Lévy) nei dintorni di una linea di collegamento la notte in cui sarebbe stata sabotata. Numerose testimonianze di ferrovieri e responsabili delle ferrovie francesi sottolineano che la tecnica utilizzata non avrebbe potuto in alcun modo provocare un deragliamento né incidenti a persone.
Poco dopo, il 17 novembre, sul sito d’informazione Rue89 pubblicavo un breve testo, dal titolo Qualche riflessione sulla costruzione di uno spauracchio mediatico [qui in lingua originale], in cui sollevavo tre questioni: uno, il fascicolo d’accusa contro gli arrestati non sta in piedi; due, ricondurre a terrorismo azioni di sabotaggio pensate per evitare qualunque incidente alle persone è una buffonata. E, aggiungevo: sotto forma di farsa, si ha l’impressione di rivedere le costruzioni abracadabra dei giudici italiani degli anni Settanta contro l’estrema sinistra, infilata in blocco dentro lo spauracchio del terrorismo. Infine affermavo: la favola del «gruppo anarco-autonomo» da parte della ministra di polizia e dei media, che hanno ripreso le sue parole senza alcuna distanza critica, è stata possibile solo grazie all’estrema ignoranza dei giornalisti nei confronti di qualunque espressione della critica radicale del capitalismo. Nessuno è obbligato a conoscere la storia dell’anarchia o quella dell’autonomia operaia. Eppure ci permettevamo di osservare che, per gente il cui lavoro è parlare di fenomeni sociali, uno sforzo documentativo sarebbe benvenuto: se oggi queste correnti non sono al centro della scena mediatica, furono comunque come pesci nell’acqua in qualcuno dei grandi eventi del secolo scorso, dal maggio ’68 all’autunno caldo italiano. Eventi che hanno profondamente segnato la fine del secolo e, vai a sapere in questi tempi di crisi, potrebbero anche rivivere una nuova giovinezza, assumere nuove sembianze negli anni che vengono.
Dieci giorni dopo, «Le Monde» pubblicava un appello, intitolato No all’ordine nuovo [qui in lingua originale], firmato da grossi nomi dell’università e della cultura, da Agamben (di cui Coupat è stato allievo) a Boltanski, da Judith Butler a Yves Pagès, passando per Badiou e Rancière. Un testo che, dopo aver analizzato la questione, concludeva:

«Di fatto, questa vicenda è per noi un test. Fino a che punto possiamo accettare che la lotta al terrorismo consenta di accusare in qualunque momento qualunque persona? Dove sta il limite della libertà di espressione? Le leggi d’eccezione adottate col pretesto del terrorismo e della sicurezza a lungo termine sono compatibili con la democrazia? Siamo pronti a vedere polizia e giustizia negoziare la svolta verso un ordine nuovo? Tocca a noi dare una risposta a queste domande, chiedendo innanzitutto l’interruzione dei procedimenti a carico e l’immediata liberazione di quelle e quelli che sono stati accusati per fare da esempio».

Perché nel frattempo era nato e cresciuto un movimento di sostegno di una forza e di un’estensione che ha sorpreso tanto gli Interni quanto quelli con abitudini di solidarietà. Un movimento che era partito da quello stesso paesino invaso dai superpoliziotti. julien_coupat2.jpgBisogna dire che Coupat [a destra, nella foto] e i suoi amici non avevano scelto quella regione, in cui coltivavano carote e facevano amicizia con i locali, per caso. Tarnac sta a qualche chilometro da Gentioux, dove è stato eretto uno dei pochi monumenti ai caduti della guerra del ’15-18 esplicitamente contro la guerra. A fianco di una targhetta che recita «Maledetta sia la guerra», la statua di un piccolo contadino in zoccoli alza il pugno. Ogni anno, una manifestazione pacifista vi raduna diverse centinaia di persone. Tarnac è anche sulle pendici dell’altipiano di Millevaches, dove Georges Guinguoin ha creato uno dei primissimi e più importanti nuclei partigiani comunisti, quando il suo partito era ancora in pieno patto germano-sovietico. Tarnac è poi a due passi da Villedieu, dove durante la Guerra d’Algeria la popolazione aizzata dal sindaco bloccava le ferrovie per impedire il passaggio dei convogli di richiamati. Così, non stupisce che il primo di una serie di comitati di difesa, spuntati un po’ ovunque da Rouen a New York, da Losanna a Bruxelles, sia nato proprio lì coinvolgendo buona parte della popolazione.
Da lì sono partite la maggior parte delle analisi poi sviluppate da tante penne prestigiose, per smontare l’operazione di terrorismo dell’opinione guidata da Michèle Alliot-Marie, dietro istigazione di uno «stratega» dell’anti-terrorismo. Alain Bauer, il personaggio che ha inventato il fantomatico «gruppo anarco-autonomo», ha una biografia interessante. Dapprima dirigente del sindacato studentesco di sinistra (Unef), è stato invischiato in una vicenda di corruzione di una mutua studentesca, ha ispirato la svolta securitaria del Partito socialista con Jospin e dirige oggi una società di sicurezza dopo essere stato a capo di una loggia massonica. È stato lui a far leggere alla ministra Michèle Alliot-Marie L’insurrezione che viene. Diventato un seguace convinto di Sarkozy, espressamente per lui è stata creata una cattedra di criminologia, per cui non ha alcun titolo, in una Grande École di Parigi.
Ma il ribaltamento mediatico è diventato flagrante: ormai non sono in molti a prendere sul serio questa vicenda, diventata uno degli argomenti comici preferiti da radio e televisioni. Dopo moltissimi dibattiti, manifestazioni e interventi mediatici su tutto il territorio, dopo una manifestazione nazionale che il 31 gennaio ha radunato a Parigi tremila persone e altrettanti poliziotti, tutti gli accusati sono stati rilasciati. Tutti, tranne uno, Julien Coupat a cui inizialmente un giudice di sorveglianza aveva concesso la scarcerazione dal 19 dicembre; istanza contro cui il procuratore della repubblica, con una procedura d’eccezione, si è affrettato a fare ricorso per impedire la liberazione del ragazzo. Da allora il giudice di sorveglianza è stato trasferito e ogni richiesta analoga si è scontrata con un muro di gomma. Per le persone in attesa di giudizio, in Francia vale il fatto che «la libertà deve rappresentare la regola e la detenzione l’eccezione». Questo adagio, che non è mai applicato ai delinquenti di piccolo calibro né ai sottoproletari, non lo è nemmeno per la persona la cui rimessa in libertà chiuderebbe il cerchio del ridicolo dell’operazione di comunicazione della ministra dell’Interno. Venerdì 13 marzo, dopo l’ennesimo rifiuto, l’avvocato di Coupat ha commentato: «è il capro espiatorio di un fiasco politico-giudiziario».

Julien COUPAT, N° d’écrou 290173, 42 rue de la santé, 75014 PARIS

frecciabr.gif Una politica pericolosa e colpevole
di Alain Brossat

comiteinvisible.jpgL’insurrezione che viene, pubblicato in Francia nel 2007 e firmato «Comitato invisibile», instancabilmente presentato da poliziotti e media come il breviario dei «giovani di Tarnac», è un testo che abbonda di buone letture; alcune affermazioni perentorie paiono direttamente prese in prestito da Minima Moralia, altre citano Debord, Badiou e diversi altri dei nostri autori che valgono. Ma basta leggerlo davvero per convincersi che si tratta di tutt’altra cosa: di certo non di un compendio alla guerra civile, né di un manuale insurrezionale come si sono affrettati a sostenere i sedicenti strateghi che circondano la ministra della Giustizia Alliot-Marie. Decisamente, si tratta di un libro che fa piazza pulita dei consueti vaticini sulla fine della politica, il crescere della barbarie. Di uno scritto attraversato da un appetito di prassi, che costantemente cerca di legare analisi a prospettive di azione. Diversamente da tanti altri, questo testo non si accontenta di eccellere nel radicale pessimismo, nel lucido disincanto; tenta, invece, di far tornare il conto della spesa della questione politica dal lato dell’azione: che fare oggi in questa situazione?
E che dice chiaramente: sì, oggi delle azioni sono possibili, delle azioni capaci di sospendere la temporalità del dominio infinito, delle azioni che facciano rivivere la figura di un conflitto nel cuore degli spazi pubblici, delle azioni «autonome» con cui ridare consistenza alle figure sacrificali della politica moderna: la comune, la sommossa, l’insurrezione. È un libro che, tra altre cose, parla del fuoco, dell’incendio come strumento politico, eppure scritto prima che il centro di detenzione per immigrati di Vincennes venisse dato alle fiamme dalla rabbia dei detenuti stessi. È un libro che si pone spavaldamente il problema della forme possibili di resistenza all’insediamento, nelle pieghe della polizia democratica, di uno stato d’eccezione furtivo e permanente di cui la schedatura, la biometria, la telesorveglianza, la detenzione su misura, le leggi sulla sicurezza sono i diversi interpreti. Un libro che non teme di affermare che i nuovi dispositivi di governo dei viventi non devono essere semplicemente denunciati, ma attivamente combattuti, foss’anche a costo di qualche illegalità. Una diagnosi sul presente che porta a tentare di risolvere la quadratura del cerchio: come produrre gli effetti di paralisi di uno sciopero generale, quando manca il popolo in sciopero?
Ma, purtroppo, tutto questo è diventato la voce fuori campo della stessa campagna «democratica» di difesa degli accusati. Questo libro, messo al riparo da qualunque relazione con i suoi progetti pratici, le azioni suggerite, le eterotopie inventate eppure reali, è finito con l’essere ricollocato nell’ambito del puro e semplice esercizio di speculazione intellettuale giovanile, una fantasia immaginativa chiamata dai provvidenziali arresti di Tarnac a tornare coi piedi per terra. Dalle prime ore degli arresti di Tarnac, la stampa non ci ha messo molto a lasciarsi andare al consueto andazzo, ad avallare la versione poliziesca di un complotto di estrema sinistra sventato per tempo.
Poi, il carattere fantasioso delle incriminazioni, a cominciare da quella di «terrorismo» e «associazione sovversiva», è apparso evidente; tanto quanto gli scarsi risultati delle investigazioni della polizia, portate avanti a tamburo battente: nessun’arma, nessun documento falso, nessuno strumento destinato al sabotaggio, nessuno crimine in flagrante e, per condimento, castelli fumosi sull’allergia dei nostri giovani eroi al telefono cellulare, sul loro trasferimento in campagna, sulla loro partecipazione ad alcune manifestazioni o sul loro rifiuto alla schedatura biometrica. La montatura poliziesca si è sgonfiata in pochi giorni e la stampa ha voltato gabbana, dando voce alle famiglie degli accusati, ai vicini, agli amici, pubblicando diverse petizioni a loro favore e facendosi beffa della storiella ormai discredita dell’idra «anarco-autonoma», con la stessa disinvoltura con cui i primi giorni dava voce alle veline della questura. Nella falla ormai aperta, si è infilato un movimento di difesa e di protesta, culminato in un appello pubblicato dal quotidiano «Le Monde» sulla pagina dei dibattiti e delle lettere. Un testo intitolato No, all’ordine nuovo e firmato da intellettuali di richiamo, filosofi per primi: Giorgio Agamben, Alain Badiou, Daniel Bensaid, Jacques Rancière, Jean-Luc Nancy, Slavoj Zizek…
L’orizzonte di riferimento di questo testo è quello di una protesta interamente riferita alle norme dello Stato democratico, allo Stato di diritto, contro la costruzione poliziesca che ha portato all’arresto e all’incriminazione di nove persone accusate di associazione terroristica. Mentre si chiede se «le leggi di eccezione adottate col pretesto del terrorismo e della sicurezza siano a lungo termine compatibili con la democrazia», questo testo finisce col dare il suo benestare al termine passe-partout di «democrazia» e si appella alla difesa della sua supposta integrità contro i dispositivi di eccezione.
Ovviamente, non è qui in discussione l’imperativo di organizzare una rete di solidarietà nei confronti degli accusati. Il problema è semmai che questa solidarietà si è dispiegata lungo una china la cui caratteristica era seppellire sotto la spessa coltre di cenere di una polizia sentimentale e «democratica» tutto quello che rappresentava il veleno, il fermento di radicalismo di questo libro di lotta, con la sua chiamata a mettersi «in strada». Un libro basato su una certezza: oggi, diventare ingovernabili, essere alla ricerca di effetti politici, di effetti di spiazzamento o d’urto che non siano riconducibili alle condizioni generali del governo dei viventi o della polizia pastorale, presuppone necessariamente reali movimenti di decentramento, forme di esilio concordato, di solitudine organizzata e l’assidua ricerca di limiti, confini, punti di rottura; non per «uscire dal sistema» creando enclave, ma per produrre dei blocchi, delle interruzioni, per denunciare i punti di debolezza, uscire dalle logiche di resistenza, rivelare nuovi possibili esponendo se stessi.
Coloro che hanno fatto proprio questo discorso di fondo sanno che oggi una politica viva può essere solo quella politica, non dei margini in senso sociale, ma dei bordi in senso politico; politica che per i governanti è associata alla pericolosità. Nel momento in cui la sinistra radicale fa testimonianza di fede della propria rispettabilità e volente o nolente tende a farsi posto nel dispositivo parlamentare, coloro che cercano una strada per ciò che Foucault chiamava inservitù volontaria, e mettono in pratica un’insurrezione dei comportamenti, diventano pericolosi e sanno che questa politica fa di loro, al cospetto di qualunque polizia, dei colpevoli. La denuncia della rozzezza delle frettolose costruzioni poliziesche non dovrebbe farci scordare la condizione specifica di ogni politica radicale oggi, che afferma: così non vogliamo farci governare, da queste gente non vogliamo farci governare, questo governo è l’intollerabile e con esso dichiariamo aperto un conflitto. L’evidenza di questa posizione è dura da digerire: semplicemente, una politica esplicitamente fondata sull’idea dell’intollerabile può essere solo una politica pericolosa e colpevole, una politica che espone coloro che la praticano alle rappresaglie di Stato e agli attacchi di tutte le polizie messe assieme (stampa, sindacati, intellettuali embedded…). Bisogna dirlo apertamente: la condizione presente di degradazione delle libertà pubbliche, di proliferazione del regime dell’eccezione condanna qualunque politica fondata sul rifiuto di «farsi governare così» e «governare da questa gente» a essere collocata nell’illegalità e dunque repressa. È appunto questa una delle lezione della vicenda di Tarnac, che non è uno spiacevole errore, un abuso, ma la manifestazione effettiva di questa nuova norma.
In nome della necessità di una difesa efficace, la parola dei nostri «comunardi» è stata annullata. Il «comitato invisibile» è diventato inudibile.
In questi tempi in cui le palinodie, le ritrattazioni e la messa in pratica della regola «cancella le tracce» costituiscono il grosso del bagaglio etico dei nostri uomini politici, è degno di nota che gli accusati che restano reclusi, con il loro silenzio, mantengano nonostante i certificati di buoni costumi rilasciati a loro sostegno la rotta degli intrattabili. È il vero sogno del bunker securitario, quello di mettere mano su gruppi di attivisti di cui affermare: ecco gli eredi della banda Baader-Meinhof, sono qui, sono armati, ecco le prove! Ma poiché questa manna non esiste, si è dovuto inventarla mascherando da «terrorismo» discorsi e comportamenti inseparabili dalle nuove forme di resistenza. La vicenda Tarnac, almeno, avrà avuto il merito di sgonfiare quel pallone a geometria variabile del «terrorismo»; ma senza che la critica a questo termine corrotto sia giunta alla sua completa ricusazione: non poche sono le anime belle che hanno pensato che l’accusa di terrorismo rivolta a questi giovani fosse uno scandalo, ma che ciononostante la lotta contro il terrorismo vero giustifica il venir meno di alcune nostre libertà. Ma la convalida del vocabolario e degli schemi discorsivi dei nostri governanti è solo l’inizio di un consenso nei confronti delle condizioni di un governo che fissa a regola legittima ciò di cui si nutre lo stato di eccezione proliferante.
Sul fronte dello Stato, degli «esperti» di ogni risma, si diffonde la sindrome dell’esplosione sociale, in virtù della quale si appronta ogni genere di dispositivo destinato a far fronte al «duro colpo», alla situazione di emergenza. Arriviamo a dire che questa scossa per loro non rappresenta solo uno degli scenari possibili, bensì uno di quelli auspicabili, tanto sono in cerca di diversivi di fronte ai durevoli effetti dello tsunami finanziario del 2008. Senza lasciarsi catturare dal fascino facile delle previsioni apocalittiche che annunciano l’imminenza del crollo del sistema, potremmo dire: in queste circostanze, in effetti non escludiamo di poter diventare pericolosi, siamo destinati a diventarlo, tanto questo governo è abietto, minaccioso e insopportabile! Dopo tutto, non sono pochi in Francia gli esempi dei focolai e delle manifestazioni di radicalismo che organizzano attivamente la resistenza a questo insopportabile — clandestini, liceali, insegnanti, operai in sciopero, persino psichiatri, che niente destinava a diventare dei sovversivi se non fosse per il decreto presidenziale che ormai gli impone di trattate i malati mentali come criminali…
A emergere è una nuova soggettività di resistenza e di defezione, che trova la sua espressione nella moltiplicazione delle affermazioni di disobbedienza. Qui non si tratta del grande mito della sollevazione di massa, ma semplicemente del dire: a queste condizioni non obbediamo più, i nostri comportamenti saranno ingovernabili, smetteranno di essere programmabili. Smetteremo di funzionare da agenti dei dispositivi che ci governano, non giocheremo più quel ruolo, non staremo più lì dove vi aspettate e prevedete che saremo. In fondo, è ciò a cui esorta L’insurrezione che viene.

Titolo originale: Tous Coupat, tous coupables, pubblicato su www.editions-lignes.com
© Nouvelles Éditions Lignes, 2009. Sul sito è disponibile il testo in versione integrale.

frecciabr.gif Da Tarnac a Chernobyl passando per Wall Street
di Frédéric Neyrat

neyrat.jpgCrisi, essere immersi nella crisi, uscire dalla crisi… Un minimo di sforzo concettuale vorrebbe oggi che si mettesse in crisi lo stesso concetto di «crisi», che si scegliesse di non usarlo più. Da vero significante tappa-buchi, dice meno e dice più di quanto dovrebbe, come accade per la «crisi finanziaria».
Dice troppo poco, perché attenua la gravità degli eventi che dovrebbe descrivere: non stiamo attraversando una «crisi del capitalismo», ma un crollo annunciato del nostro modo di sussistenza. Dei nostri modi di vivere e di continuare a vivere. Questo crollo previsto va ben al di là del problema del modo di sussistenza dell’ambito finanziario e finisce col toccare l’intera economia e i suoi rapporti con le materie prime, i territori, le abitazioni, le energie e il cibo, insomma con l’ecologia globale. L’ecologia fisica e psichica del globo dai flussi interconnessi e dalla comunicazione panicata, epidermica, virale e virulenta. Quando l’insieme di un mondo e dei suoi modi di essere viene messa in discussione da eventi suscettibili di tracciare una soluzione di continuità, non è di crisi che possiamo parlare, bensì di catastrofi. Di catastrofi in corso.
Eppure, il termine crisi dice anche di più di quanto dovrebbe. Sembra dire che qualcosa sarebbe davvero sul punto di cambiare, rimandando al significato etimologico di krisis come «giudizio», «decisione». È invece ormai da mezzo secolo che progressivamente si va istituendo una nuova forma di «governamentalità», di «razionalità politica» precisamente fondata sul problema dei rischi e delle crisi. Dalla fine del secolo scorso questa nuova governamentalità ha fatto propria la gestione delle catastrofi, dei fenomeni estremi — climatici, epidemiologici, «terroristici»… come un dato della normalità.
Non solo l’eccezione è diventata la norma, come si va ripetendo oggi quasi da sonnambuli dopo Walter Benjamin, ma le norme e le eccezioni di poco fa hanno sgombrato il campo a un dispositivo inedito che le riconfigura in modo radicale. Possiamo chiamare biopolitica delle catastrofi quella governamentalità che, ben oltre il problema neoliberista della gestione dei rischi, fa della catastrofe il punto a partire dal quale si articola l’ordine politico, il nuovo nomos globale. Ad esempio, la National Security and Homeland Security Presidential Directive, promulgata nel 2007 negli Stati Uniti, ha facoltà di sospendere il governo costituzionale introducendo poteri di natura dittatoriale coperti dalla legge marziale in caso di «emergenza catastrofe»; ovvero, dice la direttiva, nel caso di qualunque «incidente» che «colpisca la popolazione, le infrastrutture, l’ambiente, l’economia o le funzioni di governo degli Stati Uniti». Occorre allora mettere in relazione questa biopolitica delle catastrofi e la soluzione di continuità, come l’introduzione di un nuovo ordine e l’abolizione di un modo di sussistenza.
Ecco allora un’ipotesi: numerosi responsabili di governo, di organi internazionali ed esperti riconosciuti hanno oggi esplicitamente accettato l’idea dell’«irreparabile»: cambiamenti climatici, guerre per le risorse idriche nell’immediato futuro, inevitabile aumento dei rifugiati per ragioni tanto ecologiche che economiche… Ciò cui stiamo assistendo è l’affermazione di una nuova divisione e di una nuova distribuzione, di un nomos dunque. Ciò che accade sotto i nostri occhi è l’attuazione di programmi di adattamento agli sconvolgimenti previsti. Ed è in questo contesto che ormai occorre pensare la formulazione di leggi e di strutture cosiddette «anti-terrorismo»: la loro funzione è quella di collegare la sorveglianza, il controllo, la reclusione delle popolazioni sottoposte a catastrofe, che si tratti di rifugiati venuti da lontano o di affamati dell’interno (due categorie sovrapponibili e intercambiabili: in un mondo globalizzato, come in un nastro di Moebius ogni elemento interno è allo stesso tempo un elemento esterno).
Obiettivo del nuovo nomos globale è tentare di ritagliare gruppi privilegiati dal «resto» della popolazione, creando sacche di immunità, Green Zone come in Iraq. Eppure alla fine dall’Iraq bisogna andarsene, come farà Obama, e già si sta pensando di abbandonare la Terra, benché sia decisamente più arduo. Perché sappiamo che la biopolitica delle catastrofi è condannata al fallimento, che l’adattamento sarà disastroso, che nessuna «classe» se la caverà e che le velleità di disobbedienza sono ormai moneta corrente, al punto da rendere in tendenza impossibile qualunque forma di controllo efficace. Purtroppo però a regnare è l’antinomia del giudizio immunologico: da un lato, si sa di essere parte di un mondo, di un flusso integrato e di comportamenti mimetici che questo produce; dall’altro, si crede di poter costituire l’eccezione, «a noi non succederà niente, siamo al sicuro» e si vota per Sarkozy.
Quelli di Tarnac avranno allora sperimentato sulla loro pelle uno dei risvolti di questo nuovo nomos. Non saranno gli ultimi. Finché continueremo semplicemente a ridurre le leggi anti-terrorismo a leggi repressive, liberticide, poliziesche, senza capire la nuova funzione della polizia, resteremo nell’impossibilità di combatterle. Perché ciò che occorre combattere è la catastrofe come condizione. Tanto ciò che è all’origine dei disastri economici ed ecologici, quanto i rimedi della governamentalità, così come il discrimine tra chi si ritiene immune e chi non è immune che rimanda gli uni agli altri. Le nuove politiche ambientali di Sarkozy equivalgono a Chernobyl. Il capitalismo verde alle carestie. Le leggi anti-terrorismo alla libertà sui denti.

Questo speciale, a cura di Serge Quadruppani e Ilaria Bussonni, è stato pubblicato in forma cartacea su “Alias”, supplemento culturale de il manifesto. La traduzione è di Cecilia Savi.