di Leonardo Clausi

MatthewHerbert.jpgL’intervista che segue fa parte di un colloquio/intervista avuto con Matthew Herbert, dance producer e artista elettronico extraordinaire inglese, un tardo pomeriggio di dicembre a Hoxton, East London. Una minima parte di questa intervista è uscita sul settimanale “L’espresso” (numero 4 del 23 gennaio 2009). Volevo pubblicare il resto in maniera integrale, senza nessun editing dettato dalle esigenze politico/editoriali della stampa mainstream. Ringrazio Carmilla per lo spazio accordatomi.

Il tuo lavoro, il tuo uso della musica come strumento di riflessione e critica del mondo sembra presupporre che tutto, per te, abbia un significato politico.

Sì, nessuno è un’isola e il successo più evidente del sistema dominante è il riuscire a farci credere che ogni azione è isolata, che si possa comprare una bottiglia di acqua minerale da venti dollari senza conseguenze, a parte l’arricchimento del ristoratore che te la vende. È una delle conquiste maggiori del capitalismo: rimuovere l’immaginazione dal processo della vita quotidiana.
La televisione ha preso il sopravvento, la chirurgia plastica si diffonde sempre più, le modelle che già sono le donne più belle del mondo vengono modificate ulteriormente con Phototoshop, tutto contribuisce a creare un’illusione. Credo che sia una mia responsabilità come artista il far scoppiare questa bolla, interrompere questo meccanismo.

Ma tu sei un musicista e l’industria musicale è soprattutto un veicolo di consenso. Il fatto che ti critichino o dileggino per il tuo uso politico della musica è soprattutto volto a neutralizzare questo uso. Soprattutto in questo paese (UK), dove non si è mai creduto che l’arte potesse cambiare il mondo.

Sì, anche negli anni Sessanta era un vento che veniva dagli Stati Uniti, o da Parigi. Per non parlare dei tempi più recenti. Qui poi, la musica stranamente non è nemmeno considerata un’arte, ma una guilty pleasure e una manifestazione di conformismo piuttosto che una voce indipendente. Ha una funzione di evasione. Ma la cosa per me più interessante è che finge di essere di evasione quando, in realtà – e l’esempio più calzante quello di una discoteca, un luogo buio delimitato da pareti, che sembra disegnato per escludere il mondo circostante e dunque finge di essere separato dalla realtà – oggi è diventato dominio di corporations: tutto è sponsorizzato da marche di birra a réclame di sigarette, playstation, redbull, tutto insomma veicola messaggi pubblicitari e mi meraviglia molto che la musica abbia deciso di accettare questa versione corporate della realtà, invece di metterla in discussione.

Ma l’arte si nutre del sistema anche e soprattutto quando lo critica. L’artista ha bisogno del compratore/committente, dal Rinascimento ad oggi. E tu che fai parte della scena dance: la cultura dance non è fatta apposta per anestetizzare il senso critico delle persone?

Quello che la musica dance ha fatto per me e la mia vita creativa è stato permettermi di competere nel mercato in maniera assolutamente libera grazie alle white labels [etichette di singoli e 12 pollici in vinile prive di qualunque informazione sul contenuto del supporto, Ndr] tra la fine degli Ottanta e i primi Novanta: potevi fare un pezzo in camera tua senza che nessuno sapesse nulla, pubblicarlo sotto un nome qualsiasi. La gente lo avrebbe comprato solo se gli piaceva e, anche se inevitabilmente finiva per essere decodificato, era un mezzo che ti permetteva di assumere l’identità, il genere, la sessualità che volevi, bypassando genere, razza, cultura. Musicalmente, tutto questo era incredibilmente liberatorio. Sono cresciuto in orchestre, una situazione che richiede (Herbert ha studiato al conservatorio fino a 18 anni, Ndr) uno strumento, il sostegno dei genitori, un direttore, un luogo dove stare, l’essere tutti insieme in questo luogo, puntuali e a una data ora: insomma una caotica democrazia del compromesso, che cerca di arginare una struttura altrimenti fondamentalmente gerarchica. Il vantaggio era che potevi trasfigurare e migliorare le tue capacità artistiche, permetterti di usare strumenti che non sapevi suonare in realtà e inventare di sana pianta mondi nuovi. E credo che la musica dance ed elettronica abbiano sempre giocato ambiguamente fra questi due ruoli: quello della simulazione del passato (il ricreare i suoni di strumenti già esistenti) che trovo molto noiosa, e il mondo dei sintetizzatori degli anni ’50, l’esplorazione di percorsi sonori radicalmente nuovi – dove le macchine dialogano quasi senza l’intervento umano, che sua volta non può essere riprodotta da un coro o da un’orchestra – senza mai sapersi decidere. Per esempio, amo molto la musica pubblicata dalla Warp, ma è quasi tutta a base di drum machine che non sono altro che un rifacimento della batteria: insomma, non è che una piccola variazione su un tema già molto noto. Ma è per questo che la dance musica mi ha dato la libertà stilistica di esprimere la mia identità attraverso la non-identità. È un lusso straordinario. Penso a uno come Šostakovič e al difficilissimo rapporto che aveva con l’autorità sovietica e al continuo bisogno di permessi, riconoscimento e approvazione che ti porta il poter essere identificato: con la musica elettronica non c’era bisogno di alcuna autorità. E non solo per i dischi: quando avevo 25, 26 anni, andavo a mettere i dischi in club in Belgio che erano gestiti da gente della mia stessa età e pubblicavo le mie cose in una casa discografica gestita da gente della mia stessa età, che tentava business model sperimentali. Per me è dunque impossibile separare il processo artistico che si realizzava in quel periodo da quello che era praticamente o politicamente reso possibile grazie all’incredibile libertà economica che questa fioritura artistica poteva creare e che in parte creò. Dopo, tutto divenne selezionato e categorizzato: drum’n’bass, techno, house di New York, Chicago, Detroit, hip hop, trip hop… In Inghilterra, questi stili non erano affatto separati, almeno all’inizio. Penso di nuovo che sia un problema del capitalismo: appena contiene qualcosa la uccide: appena metti l’acqua in una bottiglia di plastica, la uccidi. Succede anche con arte alternativa come quella di Banksy: più viene esposta, più perde la sua carica, anche se l’artista mantiene forte l’ispirazione. Dunque le possibilità tecnologiche e il business model orizzontale hanno creato nella dance e nell’elettronica un fantastico momento. Ora però il passo dell’innovazione e così forsennato da non permettere la nascita di un’avanguardia artistica organizzata come nel XX secolo. Perlomeno, non succederà fin quando non ristrutturiamo il capitalismo, fin quando non rimettiamo le comunità al primo posto anziché il commercio.

E tu dove ti collocheresti?

Dove si colloca un artista recluso e schivo a cui piace fare il DJ al Fabric.

Cosa pensi del Rock and Roll e delle sue mille incarnazioni? Pensi che sia un genere fossilizzato?

Il R’n’R è la musica più conservatrice che esista. Ma quello che mi piace è che è caotico e democratico, le cose che più detestavo quando ho cominciato a fare musica. Ero un piccolo dittatore e volevo il controllo assoluto di quello che facevo. Il sampler mi dava questa possibilità: prendere qualunque cosa volessi dal mondo circostante e inserirla nel tuo mondo, distorcendola, riducendola, amplificandola, in una serie infinita di possibilità. Certo, può anche essere a suo modo “fascista”, e per fascista intendo il trasformare qualcosa d’importante e profondo in merce usa e getta.

La musica sembra dominare l’immaginario contemporaneo. Guarda le versioni internazionali di X Factor.

È un’imbroglio. Mi viene sempre in mente l’esempio della novella di Chaucer The Pardoner’s Tale (La novella dell’indulgenziere). Il Pardoner è un beone e puttaniere che vende le indulgenze per conto dell’arcivescovo di Canterbury. Una sera, ubriaco fradicio in un’osteria, si alza e confessa pubblicamente tutti i suoi vizi, compreso il suo non credere in dio e deride coloro che nonostante tutto questo continuano a comprare le sue indulgenze. X Factor è esattamente così: un imbroglio spettacolare. Lo trovo grande televisione per certi versi, soprattutto perché è un eccezionale amplificatore di emozioni. E soprattutto ti illude, ti fa credere di avere la competenza di decidere chi ha talento e chi no.

Ma la musica è un insieme di leggi codificate e, di solito, più si attiene a queste regole, come nel pop, più persone raggiunge. Come concili la tua ansia per il controllo e la perfezione con il riconoscimento dell’umano e dell’accidentale?

Per me l’accidentale è l’umano. È il caso del suicide bomber che entra in quel vagone di quel treno a quella stazione quel giorno, è l’essere nato in Palestina o in Israele, divisi da poche migliaia di metri, eppure in circostanze lontane anni luce. Per me, l’accidentale va congelato e messo in provetta. Per questo amo lavorare con i suoni, sono parte di un impegno: un impegno teorico, un impegno di principio, emotivo, nei miei confronti di individuo britannico; sono parte di un impegno e sono parte della ricerca di cosa significa essere me stesso, oggi. E i miei principi, il mio essere dittatoriale, sono la cristallizzazione di quella visione. Includendo suoni di altre persone della cosiddetta “vita reale”, il mondo fattuale, documentario, sento che respira, che passa da solida roccia inerte a terra fertile di humus: cerco di non usare la parola “organico” ma non ce la faccio e la uso, dopo tutto ho l’influenza. Per esempio, nel mio disco precedente, Scale [2006], ci sono 167 suoni lasciati nella mia segreteria telefonica. Ho fatto circolare un messaggio che diceva «Per favore, chiamate questo numero e lasciate un suono in segreteria; non ditemi che suono è, lasciate solo il vostro nome. Bene, quel pezzo per me è tra i più importanti che ho fatto e rappresenta perfettamente quell’equilibrio. 167 suoni. Alcuni posso supporre cosa siano, ma non lo posso sapere. Il pubblico è incluso nella musica, col risultato che alcuni ascoltatori conoscono quel determinato brano meglio di me. In questo caso io sono altro che l’autista della macchina che mi forniscono loro o viceversa. Di questo [L’ultimo, There’s Me and There’s You. Ndr] disco sono particolarmente orgoglioso del brano in cui cento persone cantano una parola ciascuno. Mi piace molto l’idea di avere cento sconosciuti che cantano una canzone d’amore a qualcuno che non hanno mai incontrato. Da sole non significano nulla, ma tutte insieme producono qualcosa di eccezionale.

Ci vuole poco ancora per abbandonare la musica ed entrare nel contesto dell’arte concettuale…

Ho sempre visto la mia musica come un cavallo di troia per entrare in nuovi territori. La musica per me è seduzione, sedurre le persone ad ascoltare qualcosa che non avrebbero mai ascoltato spontaneamente. Nel prossimo disco cercherò di indurre ad ascoltare la musica di un maiale fatto a pezzi, una vera macelleria musicale, o addirittura a ballarla. Per me il momento vero dell’interazione politica riguarda la trasformazione. Come quando osservavo un paio di scarpe da ginnastica e notavo che sono state fatte in Vietnam: Cina, Taiwan va bene, ma il Vietnam. Lo so che è ingenuo, ma ho davvero pensato per un attimo che il Vietnam l’avesse vinta, quella guerra. Ma naturalmente non l’ha vinta affatto, perché ora fa scarpe americane. La trasformazione. Queste cose ai miei piedi diventano i simboli, i significanti di una spregevole guerra, o parte di quella storia. Uno dei pezzi che ho fatto è costruito sul suono di una parte di un aereo tedesco abbattuto in Romania durante la seconda guerra mondiale: mi piace l’idea che un brano musicale possa contenere fisicamente l’enormità di una cosa come la guerra. E’ la stessa cosa con la vita: crediamo di conoscerla, ma non ne capiamo assolutamente nulla. Per questo non amo la scienza che pretende, e spesso finge, di capire e spiegare.

E la religione? Funzione perfettamente per milioni di persone.

È un altro gioco di prestigio, come X Factor, come l’indulgenziere di Chaucer. Credo che la musica sia una delle poche forme d’arte che ha la possibilità di essere, a un tempo, incredibilmente astratta e distante, eterea, emotiva e straniante, ma anche incredibilmente specifica come Woody Guthrie che canta di minatori negli anni Quaranta, o dell’incendio di una casa, o Britney Spears, che canta dei paparazzi che la inseguono. Non credo che tutta la musica debba essere politica. Si possono ascoltare gli Autechre, Aphex Twin, o Sakamoto, o Mahler e goderne l’astrazione, perché ti trasporta lontano dalla realtà: ma quella è per me l’ambizione dell’industria musicale più che della musica. Vale per la musica colta come per quella underground e commerciale. Prendi i migliori cento dischi pubblicati dalla Warp negli ultimi dieci anni. Ci sono pochi riferimenti alla guerra in Iraq, al riscaldamento globale, al crollo finanziario, a George Bush. Per non parlare della musica da classifica. Se dovessimo basarci su questo crudo dato empirico dovremmo concluderne che i musicisti se ne fregano di queste cose. Non so se sia vero, ma di questo menefreghismo io non voglio comunque fare parte. E per evitarlo sono disposto a sacrificare tutto quanto di etereo, sublime e astratto c’è nella musica. So che lo posso fare. Perché l’ho già fatto.

Il tuo sembra il fervore di un Majakovskij o di un Eisenstein, ma loro erano parte di una forza corale, tu sei da solo sperduto nella landa del capitalismo.

Non è vero che sono da solo. Nel disco [TIMATIS, Ndr] ci sono trecento persone che hanno contribuito. Duecento sono venute al British Museum a produrre dei suoni; trenta erano il coro. Altre cento hanno mandato la registrazione di una parola. Nessuno di loro è stato pagato, erano tutti volontari. Su trecento, solo 25 sono state pagate. Eska [Mtungwazi, la vocalist, Ndr], ha cantato gratis; io produrrò il suo disco in cambio. Questo disco è una dimostrazione pratica della forza di una politica positiva. Un mese fa circa abbiamo suonato alla Royal Festival Hall e avevamo un coro di 80 volontari che cantavano della guerra in Iraq e di Guantanamo Bay. Per questo trovo ingiusto che si sottovalutino questi fatti e si critichi il nucleo concettuale del disco: ok non ti piace la musica, ok non ti piaccio io e i miei metodi, ma almeno tenere conto di queste altre persone che partecipano. Il nome MHBB è solo funzionale.

Tu fai le ricerche per il disco come prima di scrivere un libro.

Due anni e mezzo di ricerca prima di scrivere Plat du jour [2005], e per scrivere la musica ci sono volute due settimane. La più grande sfida per un artista è rispondere a questa domanda: «Perché sto scrivendo questa cosa?» Se possiamo rispondere e dare una risposta interessante, o appropriata, possiamo considerarci soddisfatti.

Musica e politica sono un binomio ambiguo. Come vedi questo rapporto?

Tutti pensano che la musica politicizzata sia di sinistra. Poi hai uno come 50 Cent che incita a fare soldi in tutti i modi possibili, a guardare alle donne eterosessuali in un certo modo, guidare auto costose, usare violenza contro i tuoi nemici: non sono gli stessi messaggi del governo americano? Io dico che è meglio non ammazzare le persone, che dovremmo salvaguardare l’ambiente, che respirare aria pulita è bello e fa bene: e sono considerato controverso. Mentre un film come Quantum of Solace, dove il protagonista è in tuxedo con un mitra pronto ad alimentare l’immaginario di bambini di nove anni, non lo è. È un mondo incredibile, incredibile. Ma di cosa cazzo altro possiamo parlare, quando siamo circondati da questa roba? Della mia fidanzata? Della chitarra che ho appena comprato? Non vedo storie più irresistibili. Una volta, a una conferenza stampa, un giornalista spagnolo mi ha criticato per questo. Allora gli ho chiesto di suggerirmi lui qualcosa di cui scrivere. Ci fu un lungo silenzio.