Edizione aggiornata, annotata, arricchita del memorandum di Wu Ming 1

Metopa del Partenone raffigurante la lotta tra un Centauro e un Lapita

PREMESSA

Il vero pensiero si riconosce in questo: che divide.
– Mario Tronti, La politica al tramonto

Dobbiamo essere pazienti gli uni nei confronti degli altri e rallegrarci quando riusciamo – sia noi che gli altri – ad avanzare. Restare non dobbiamo.
– Károly Kerényi, lettera a Furio Jesi, 5/10/1964

In un modo o nell’altro, in un tempo o nell’altro, la guerra sarebbe tornata.
– Alan D. Altieri, Magdeburg, l’eretico

Memorandum.
Sintesi provvisoria.
Primo tentativo.
Instabile oscillante reazione ancora in corso.
Sono passati sei mesi da quando ho adoperato queste espressioni in New Italian Epic – testo di cui si continua a discutere, proposta aperta, abbozzo di lettura comparata, albo di appunti da tenere sotto gli occhi, ricordare, utilizzare.
Non a caso l’avevo chiamato “memorandum”. Il dizionario De Mauro dà come primo significato del termine: “documento, foglio, fascicolo in cui sono esposti per sommi capi i termini di una questione.” Per sommi capi, infatti, descrivevo un insieme di opere letterarie scritte in Italia negli ultimi quindici anni, cercando parentele inattese o, all’inverso, sciogliendo legami troppo spesso dati per scontati.
Ne è nato un dibattito che non accenna a spegnersi, anzi, si ravviva e si innalza a ogni bava di vento.

Il memorandum, pubblicato in rete, è stato scaricato circa 30.000 volte, riprodotto in varie forme e commentato, letto a fondo o letto in fretta, celebrato o liquidato, osannato o crocifisso tipo rana in un museo. Da un lato si son viste invettive a mezzo stampa di critici e cronisti culturali; dall’altro hanno preso forma interventi, controproposte, adesioni di scrittori tirati in ballo ma anche no, più altri disparati soggetti. Cito alla rinfusa: Giancarlo De Cataldo, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto, Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Girolamo De Michele, Antonio Scurati, Giovanni Maria Bellu, Tommaso Pincio, Gianni Biondillo, Alessandro Bertante, Valter Binaghi, R. S. Blackswift, Guglielmo Pispisa, Letizia Muratori, Vanni Santoni e il gruppo SIC, Alessandro Defilippi, Rosario Zanni, il movimento dei Connettivisti, la redazione della rivista Tabard e tanti altri.
Diversi contributi giungono da cosiddetti “cervelli in fuga”, dottorandi e ricercatori in letteratura e filologia riparati in università estere, visto che il nostrano inferno accademico e un pesante sistema di legittimazione culturale chiudono loro ogni spazio. Altri interventi arrivano – questo non me l’aspettavo – da psicanalisti e psicoterapeuti; del resto, sollecitare narrazioni e sondarle in profondità è la base del loro mestiere. Incontri e convegni si sono svolti o sono in programma in Italia e altri paesi, e si stanno scrivendo libri.

Durante l’estate ho pensato: è tempo di raccogliere gli spunti e fare una versione “2.0”. Eccola, è pronta, l’avete sotto gli occhi.
In questa release, al testo primario se ne affianca uno nuovo, flusso di commenti, contrappunti, svolgimenti e sfatamenti d’equivoco.
Non vuole essere soltanto un apparato di glosse: l’ispirazione è nelle note che James G. Ballard aggiunse alla nuova edizione di The Atrocity Exhibition (1970, 1990). Nell’edizione italiana – almeno nella vecchia Bompiani di cui sono in possesso – le note appaiono in coda ai capitoli, mentre in quella americana interrompono il “romanzo”, sbucando tra un paragrafo e l’altro, sovente “spodestando” il testo principale e guadagnando per prime l’attenzione del lettore.
Mentre scrivevo, l’idea si è modificata: oggi l’impostazione ballardiana è retrocessa a spunto, richiamo, percepibile ma vago; in NIE 2.0 il testo nuovo sta in basso, non in mezzo, e campeggia su uno sfondo di diverso colore, così da essere individuabile al primo colpo d’occhio.

Il NIE è una delle molte-buone-diverse cose che accadono oggi nella letteratura italiana. Seguo anche altri fenomeni, dentro Wu Ming leggiamo e consigliamo libri di ogni sorta, però quest’epica recente è quel che più mi interessa sondare. Vorrei che esplorassimo tutti insieme lo strato profondo, quello dove si intrecciano le radici di tante opere, opere in apparenza diverse ma che molti lettori sentivano affini e consonanti già prima che io scrivessi il memorandum. Lo dicono le testimonianze che ho raccolto, anzi, l’idea di scrivere il memorandum si è rafforzata vedendo quali “mappe mentali” i lettori andavano componendo e descrivendo in un turbine di mail, commenti su blog e forum, consigli incrociati, domande durante presentazioni di libri etc.
Certa pseudo-critica che crede di orientare il dibattito culturale non si è accorta di quanto succedeva perché da tempo – cronometrista e schiava di un tran tran disperante – ha rinunciato a immaginare che si possano, o meglio, debbano

spezzare tutti i falsi legami gerarchici tra le cose e le idee, distruggere tutti gli strati ideali divisori tra di loro. È necessario liberare tutte le cose, permettere loro di entrare in libere unioni, proprie della loro natura, per quanto bizzarre queste unioni sembrino dal punto di vista dei legami tradizionali consueti. È necessario dare alle cose la possibilità di stare in contatto nella loro viva corporeità e nella loro varietà qualitativa. È necessario creare tra le cose e le idee nuovi vicinati che rispondano alla loro effettiva natura, porre accanto e unire ciò che è stato fallacemente diviso e allontanato e disgiungere ciò che è stato fallacemente avvicinato.
– M. Bachtin, “Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo”, in Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979

Era prevedibile che il memorandum incontrasse ostilità e reazioni sopra le righe: ci mangia un intero establishment sul tenere divise o unite con lo sputo cose e idee: cattedre tenute da baroni influenzano redazioni che s’impastano con organizzazioni di festivals & kermesses con patrocinii di province e regioni che finanziano potentati che carburano a precariati etc.
E’ probabile che il dibattito continui a suscitare l’aperta inimicizia – o la stizza tenuta a stento – della “casta dei mediatori”, in cui militano veri e propri “cottimisti” della denigrazione. L’importante è essere consci che il dibattito reale si svolge altrove.

Molti commentatori – almeno sulle prime – si sono concentrati sulla questione “postmoderno sì / postmoderno no / postmoderno chevvordì? / Non lo so.”
Il focus del mio testo mi pareva fosse un altro. Asserivo l’importanza di abbandonare la tonalità “dominante” nel postmodernismo (Dominante, diz. De Mauro, significato n.8: “fotogr., cinem., tipogr., in un’immagine, colore che prevale eccessivamente sugli altri a causa di un errore di sviluppo”), e spiegavo che sta già succedendo. C’è chi ha preso per un manifesto programmatico (“Basta col postmoderno!”) una semplice constatazione.
In linea di massima, ora come ora, della definizione di “postmoderno” mi importa poco, forse niente. Solo che non posso esimermi, fingere che l’argomento non sia stato dibattuto, quindi ho scritto una postilla intitolata “Postmodernismi da 4 $oldi”. E’ in coda a tutto, e dice quel che penso. Poi basta, parlatene voialtri [*].

[Come? Se può uno scrittore “fare il critico”?
Scusi, eh, ma Lei dov’è stato negli ultimi tremila anni?
Non c’è quasi autore del “canone occidentale” [chiamiamolo così per capirci, sappiamo bene che non è equo] che non sia stato anche un “critico”. Quando la prassi è lo scrivere, difficile distinguerla dalla teoria (lo “scrivere di”). In questo preciso momento faccio lavoro di scrittore. Scrivo queste frasi un romanzo un racconto, sto narrando.]

Il NIE è un’ipotesi di lettura, la mia ipotesi. E’ invece un dato di fatto l’esistenza di un corpo di testi, libri scritti nella “seconda repubblica” aventi in comune elementi basilari e una natura allegorica di fondo. Se tale corpo non esistesse il memorandum non sarebbe “suonato bene” a così tante persone, né avrebbe scatenato tutto quest’ambaradàn.

In rete, si è affermato come “logo” del dibattito sul NIE il profilo di Eracle che indossa la pelle del leone di Nemea. La belva, figlia di Tifone ed Echidna, era invulnerabile. La sua pelle non poteva essere perforata da alcuna arma. Da tempo terrorizzava e uccideva la popolazione dell’Argolide, sbranava pecore e mucche, riempiva l’aria coi suoi ruggiti. Affrontarlo fu la prima delle dodici fatiche di Eracle. Nella lotta l’eroe perse un dito, ma alla fine riuscì a strangolare la belva, e da quel momento ne indossò la pelle come armatura.

…allegoria? Quale allegoria?

Il mio stile è vecchio
come la casa di Tiziano
a Pieve di Cadore.

Wu Ming 1, 12 settembre 2008
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Altri formati: ODT (Open Office) – DOC
Indice del flusso-commenti:
La questione del “realismo” – La morte del Vecchio – Opere – Scrittore, non sei stato nominato! – “Teatro epico” e NIE – La questione “autobiografica” – Quel tale che scrive sul giornale – La “forma-passeggiata” – Accade in Italia – Millenovecentonovantatre – Ricordando Termidoro – Di come fu ucciso il romanzo d’appendice – L’azione di contare le mine – Gelidamente ironico – Fusione di etica e stile nello sguardo “obliquo” – Noi siamo Saviano – Epica “eccentrica”, l’eroe si assenta (o ritarda) – Il popolare, lo gnostico – Paratassi – Che lavoro fa Genna – Non avvelenate i cani – En passant, sugli UNO – Sul “fallimento” di Babsi Jones – Una precisazione su Cibo – Il transmediale – Allegoria, mitologema, allegoritmo – Uno svarione zoologico – La sua cruenta polvere a calpestar verrà – L’effetto – Postilla: postmodernismi da $4

P.S. Questa “versione 2.0” verrà presentata e discussa con l’autore a Milano il 25 settembre, h.18:30, all’Informagiovani, via Dogana 2 (Piazza Duomo). Ingresso gratuito, info: 02/88468390.
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* A David Foster Wallace, 1962-2008

Wallace-David-Foster.jpgSe ho un vero nemico, un patriarca contro cui commettere parricidio, si tratta probabilmente di Barth e Coover e Burroughs, e perfino Nabokov e Pynchon. Perché, anche se la loro consapevolezza, la loro ironia e la loro anarchia avevano scopi validi, l’assorbimento della loro estetica nella cultura consumistica americana ha avuto conseguenze terribili per gli scrittori e per tutti gli altri. Il mio saggio sulla TV in realtà parla di quanto sia diventata velenosa l’ironia postmoderna. Lo vedi in David Letterman, in Gary Shandling e nel rap, ma lo vedi anche in quella merda di Rush Limbaugh, che potrebbe pure essere l’Anticristo. Lo vedi in T. C. Boyle e William Vollmann e Lorrie Moore. E’ più o meno tutto quel che c’è da vedere [in Mark Leyner]. Leyner e Limbaugh sono le torri gemelle dell’ironia postmoderna degli anni Novanta, il loro è un cinismo “hip”, un odio che strizza l’occhio e ti dà di gomito e finge che sia tutto uno scherzo.
L’ironia e il cinismo erano quel che ci voleva contro l’ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. La cosa grandiosa dell’ironia è che seziona ogni cosa e poi la guarda dall’alto per mostrarne le tare, le ipocrisie, le scopiazzature […] Il sarcasmo, la parodia, l’assurdo e l’ironia sono modi efficaci di smascherare la realtà e mostrarne la sgradevolezza, ma il problema è: una volta che abbiamo fatto saltare le regole dell’arte, e dopo che l’ironia ha svelato e diagnosticato le brutture del reale, a quel punto che facciamo? L’ironia è utile per sfatare le illusioni, ma in America le illusioni le abbiamo già sfatate e ri-sfatate […] L’ironia e il cinismo postmoderni sono ormai fini a se stessi, sono il parametro della sofisticatezza hip e dell’abilità letteraria. Pochi artisti osano parlare di altri modi di porsi per risolvere ciò che non va, perché temono di sembrare sentimentali e ingenui agli occhi degli ironisti stanchi di tutto. L’ironia è stata liberatoria, oggi è schiavizzante. In un saggio ho letto una bella frase, diceva che l’ironia è il canto dell’uccellino che ha imparato ad amare la propria gabbia. Non c’è dubbio che i primi postmodernisti e ironisti e anarchici e assurdisti abbiano prodotto cose egregie, ma il guizzo non si passa da una generazione all’altra come il testimone della staffetta, il guizzo è personale, idiosincratico […] Dai giorni di gloria del postmoderno abbiamo ereditato sarcasmo, cinismo, una posa annoiata maniaco-depressiva, sospetto nei confronti di ogni autorità, sospetto di ogni limite posto alle nostre azioni […] Devi capire che questa roba ha permeato la nostra cultura, è diventata il nostro linguaggio, ci siamo dentro a tal punto da non capire più che è solo una prospettiva, una tra le tante possibili. L’ironia postmoderna è diventata il nostro ambiente.
[…] Tutta l’attenzione e l’impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al lettore non possono essere a tuo vantaggio, devono essere a suo vantaggio […] Un’opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo in un modo che rischia di farci provare davvero qualcosa nel farlo. Significa essere pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore del lettore.

— DFW, 1993


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