di Gioacchino Toni

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Vincenzo Ruggiero, La violenza politica, Laterza, 2006, pp. 251, € 20,00

Vincenzo Ruggiero, docente di Sociologia presso la Middlesex University di Londra e l’Università di Pisa, è uno studioso che ama oltrepassare i confini dei singoli ambiti disciplinari. La necessità di travalicare i confini settoriali deriva dalla volontà dell’autore di mettere alla prova quanto appreso alla luce di differenti discipline e altri approcci: da ciò derivano le sue incursioni negli ambiti della letteratura classica così come nella sociologia urbana e nei movimenti sociali.

La serie di pubblicazioni di Ruggiero relative, in un modo o nell’altro, al crimine è davvero lunga, tra gli ultimi studi apparsi in Italia si segnalano: La Roba (Pratiche Editrice, Parma 1992), Economie Sporche (Bollati Boringhieri, Torino 1996), Delitti dei deboli e dei potenti (Bollati Boringhieri, Torino 1999), Movimenti nella città: gruppi in conflitto nella metropoli europea (Bollati Boringhieri, Torino 2000) e Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura (Il saggiatore, Milano 2005).
Nella sua ultima pubblicazione, La violenza politica, l’autore si sofferma sul rapporto tra violenza istituzionale (dall’alto) e violenza antiistituzionale (dal basso) partendo dagli strumenti concettuali della criminologia pur non mancando di polemizzare con certe omissioni di comodo da parte di numerosi studiosi relative proprio alla “violenza politica”. L’autore affronta le diverse varianti di violenza istituzionale ed antiistituzionale analizzando le teorie e le definizioni specifiche delle diverse epoche.

Nel primo capitolo, “Barbarie di Stato e sedizione”, sono analizzate le definizioni di “violenza politica” proprie della criminologia classica a partire dai testi di Cesare Beccarla (la violenza antiistituzionale come reazione speculare alla violenza esercitata dalle istituzioni) e Jeremy Bentham.
In “Assassini-filantropi e regicidi”, secondo capitolo, si esaminano le proposte interpretative dalla Scuola positivista in relazione alla violenza politica. Secondo tale approccio la violenza politica non sarebbe da considerare “atavistica” ma “evolutiva” in quanto tende a voler anticipare sistemi politico-sociali futuri, sancendo una netta distinzione tra ribellione e rivoluzione.
Nel terzo capitolo, “Effervescenza morbosa”, l’autore discute le letture della violenza politica proposte dalla tradizione funzionalista a partire dagli studi di Durkheim (dalle distinzioni tra la “ragionevolezza” della proposta socialista e il “programma abnorme” di distruzione sociale insita nell’opzione comunista) proseguendo poi con l’analisi delle proposte di Marcel Mauss e dell’idea di cambiamento sociale in Talcott Parsons e Robert Merton.
Il testo continua con il presentare il lavoro dei sociologi di Chicago nel quarto capitolo, “Uomini politici, gangster e militanza violenta”. In tale sezione sono analizzate, oltre che le alleanze tra crimine organizzato e politica ufficiale, anche alcune forme di violenza dal basso, di “movimenti riformisti” e “movimenti rivoluzionari” con riferimenti alle proposte di Herbert Blumer circa i meccanismi che portano alla nascita ed allo sviluppo organizzato dei movimenti.
Nel capitolo quinto, “Violenza prepolitica e ostilità organizzata”, sull’onda dell’analisi dei teorici del conflitto in criminologia, l’autore presenta criticamente il concetto di “politicità del crimine”. Ruggiero sottolinea come i teorici del conflitto in criminologia leggono prontamente nelle rivolte antiistituzionali una disorganizzata reazione alla violenza dell’ineguaglianza sociale, mentre si trovano in difficoltà nell’interpretare quegli attori politici che volontariamente optano per forme violente.
L’analisi delle proposte dell’interazionalismo simbolico occupano il sesto capitolo, “Suicidio rivoluzionario”. È così indagata la lettura della violenza politica dal basso come forma di “azione congiunta”, inseparabile dalla violenza dall’alto, vero e proprio agente provocatore di cui intende essere risposta. In tale ambito è indagata l’esperienza specifica delle Pantere Nere.
Nei due successivi capitoli l’analisi si sposta su due specifiche esperienze di gruppi armati europei. L’ascesa dei movimenti radicali tedeschi (in particolare la Raf) ed il ruolo della “teoria critica” francofortese e della nozione marcusiana di “tolleranza repressiva” sono trattati nel capitolo settimo, “Il primato cieco dell’azione”. Nell’analisi del fenomeno tedesco, emerge come molti membri dell’organizzazione armata hanno percepito la loro attività politica come “rivoluzionaria” non per gli effetti prodotti dai loro attacchi, quanto piuttosto in quanto attività illegale. Nel capitolo successivo, l’ottavo, “Colpire il cuore dello Stato”, è analizzato il caso italiano delle Br e la gamma di forme di violenza attuata da queste in relazione agli sviluppi della violenza istituzionale utilizzata nel colpire gli oppositori.
Nel capitolo nono, “Clonando il nemico”, l’autore analizza la guerra e il terrorismo intesi come le due forme estreme di violenza politica. Sono qui sottolineati i tratti che accomunano queste due forme di violenza che sembrano autoalimentarsi a vicenda. «I terroristi internazionali contemporanei in questa prospettiva appaiono come “cloni” di chi dichiara guerra contro di loro, vale a dire coloro che utilizzano violenza “pura”, non mirata, contro civili e non combattenti».

La presa d’atto di come la violenza antiistituzionale non di rado si sia evoluta in terrorismo, cioè in qualcosa di speculare a ciò che intendeva combattere, impone a questo punto un interrogativo: il sogno di Prometeo di raggiungere una pace definitiva attraverso un ultimo e risolutivo colpo di violenza è forse destinato a restare tale? È con tali riflessioni che l’autore giunge al decimo e ultimo capitolo, “La criminologia come cessate il fuoco”, in cui si occupa di guerra come crimine dei potenti.

«L’adagio di Brecht “pietà per i paesi che hanno bisogno di eroi” potrebbe venire esteso e applicato ai gruppi sociali, i quali potrebbero vedere piuttosto nell’antieroismo una strada percorribile in vista del mutamento sociale. È ora di riconoscere negli eroi i responsabili di quello che Voltaire descrive come “ignobile carneficina e eroica macelleria”; è ora di declassarli al rango di piromani, assassini, stupratori e di apprezzare invece gli antieroi, i perturbatori che sollevano dubbi sui valori dati per scontati. Questo libro, che propone un’analisi della violenza politica, è anche un inno agli antieroi.»