di Jim Fante
Testimonianza raccolta da As Chianese

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Presso Einaudi Stile Libero è stato da poco ristampato il romanzo La Strada per Los Angeles di John Fante. Opera prima di uno degli scrittori più controversi e significativi della narrativa statunitense, scritta nel 1930 ma pubblicata soltanto postuma nel 1985 dalla Black Sparrow Press, essa è la prima delle quattro tappe nella vita dell’aspirante scrittore Arturo Bandini. Il suo personaggio per eccellenza, l’alter ego più conosciuto e apprezzato dai lettori.
Per l’occasione, festeggiando finalmente la presenza in libreria dell’intera quadrilogia fantiana, pubblico un significativo stralcio della recente corrispondenza epistolare tra me e Jim Fante, figlio dell’autore di
Chiedi alla Polvere.

La più grande aspirazione di Jim, dopo una vita dedicata al lavoro e alla famiglia è, adesso, quella di scrivere. Come già tempo addietro fece suo fratello Dan con Angeli a Pezzi, lui vorrebbe realizzare un libro sincero ed essenziale sul suo amato padre. Sono anni che cerca l’ispirazione nei suoi personali ricordi per partorire questo progetto, da quello che ho potuto capire senza essenzialmente ricorrere all’espediente della fiction.
Pubblico questo lungo frammento — da me tradotto — delle nostre corrispondenze, la più lunga risposta che lui mi abbia mai dato quando ho cercato di farmi raccontare del padre, come se fosse una sorta di embrione per un suo futuro libro. Faccio questo come grande omaggio a suo padre, come ricordo di John Fante, ma anche come il migliore degli auguri possibili per Jim.
(As Chianese)

Gli ultimi anni della vita di mio padre furono difficili, lui aveva subito molto e stava male fisicamente. Aveva un’ulcera a una gamba e per mesi non ha fatto altro che immergerla nei sali di Epsom (sale speciale che disinfetta a fondo le ferite, n.d.r.) per evitare che andasse in cancrena. Però i medici hanno dovuto amputargliela. Prima lo fecero sotto il ginocchio ma la gamba non guarì. Decisero allora di amputargli anche la parte sopra il ginocchio e le cose andarono meglio. Ma da quel momento la mente di mio padre non fu più la stessa. Passò del tempo e gli dovettero amputare anche l’altra gamba. La sua malattia, il diabete, peggiorò e perse anche la vista. Alla fine fu ricoverato al Motion Picture Hospital, cieco e senza gambe.
Psicologicamente distrutto, bloccato. Di solito gli andavo a fare visita e lui mi chiedeva sempre una sigaretta. Gli infermieri e gli altri malati gliele rubavano e lui era disperato perché non poteva fumare. Gli avrei lasciato un pacchetto se solo non avessi saputo che più tardi sarebbe sparito. Gli rubarono anche le sue radio, così per parecchio tempo rimase da solo in un letto d’ospedale senza far nulla, spento, completamente disperato.
Lui, però, non ha mai voluto la pietà di nessuno. E di solito quando io arrivavo all’ospedale mi chiedeva di andarmene, mi diceva che non c’era niente che io potessi fare e di andare in un altro posto, di trascorrere una giornata felice. Provai a stargli vicino per un po’, ma lui si oppose: non voleva che nessuno si dispiacesse per lui.
Dopo aver perso la vista, come probabilmente sai ha dettato Sogni di Bunker Hill a mia madre. Era stato male nei mesi precedenti, incapace di fare qualsiasi cosa. Con dei seri problemi psichici, ma decise di scrivere lo stesso il libro e ce lo disse con nostro grande stupore. Si sedeva sul patio dietro la nostra casa a Malibu con mia madre e le dettava il libro, mia madre si stupì del fatto che lui riuscisse a farle scrivere un libro che non ebbe bisogno di alcuna revisione prima della pubblicazione. Era l’ultimo sforzo di un vero artista, una storia che volle raccontare con tutte le sue ultime e poche forze. Quando il libro fu pubblicato lui ricadde in una profonda depressione, perdendo la lucidità, e ben presto si dovette farlo ricoverare di nuovo al Motion Picture Hospital, dove trascorse gli ultimi mesi di vita.
Un giorno, circa nel 1975, dopo che mio padre aveva terribilmente sofferto di ulcere ai piedi, tanto da dover rinunciare a giocare a golf, io uscii nel giardino. Lo trovai che colpiva delle palline da golf di plastica dietro casa. Gli domandai come stava e lui mi rispose che si sentiva meglio, adesso, con i piedi. Gli chiesi se voleva venire con me al campo da golf per fare un giro di buche con me. Glielo avevo domandato molte volte durante i primi 2 o 3 mesi precedenti alla malattia. Lui mi disse: “Ok, proviamo”. Devi capire che questo era molto importante per entrambi, poter condividere insieme quel momento felice.
Abbiamo viaggiato per mezz’ora fino al campo di Westlake Village, li abbiamo fittato una macchina elettrica e iniziato il giro. Quasi sin dall’inizio mio padre faceva molte smorfie, dovute al dolore, ogni volta che doveva scendere dalla macchina per andare a piedi a colpire la pallina. Il suo desiderio di giocare a golf con me era l’unica cosa che lo manteneva in piedi, ma dopo alcune buche mi disse che doveva andar via. Ricordo quel giorno perché entrambi sapevamo che lui non avrebbe potuto più ritornare a giocare. Non avrebbe potuto più apprezzare la gioia di quel momento sul campo da golf.
Mi sono seduto nella macchina e ho iniziato a piangere, non sapendo assolutamente cosa fare. Ma lui mi ha detto “Accompagnami alla sede del club, ti aspetterò là. Continua pure il giro da solo”. Gli risposi: “No, assolutamente. Non potrei mai farlo, ti accompagnerò a casa”. Ma lui non ne voleva sapere, si era intestardito. Lo accompagnai alla sede del club, dove ha pazientemente atteso due ore mentre io finivo il mio giro. Quando sono rientrato lui stava parlando e ridendo con uno dei ragazzi che lavoravano al club. Sembrava che si stesse divertendo, che apprezzasse quel momento fuori di casa all’aria aperta, senza preoccuparsi dei suoi piedi e della sua condizione. Siamo ritornati alla mia auto insieme, per andare a casa. Lui sussultava di dolore a ogni passo che faceva per raggiungerla. Non è riuscito a nascondermi la sua sofferenza, non ne ha potuto più. Ho iniziato a piangere di nuovo, ma lui mi ha detto “Smettila Jimmy, vedrai che andrò tutto bene…”.
Lui non stette mai più bene. Abbiamo guidato fino a casa in perfetto silenzio, sapendo che non c’era niente da dire. Si ritirò nella sua camera con mia madre che gli portava i secchi caldi con il sale Epsom per i suoi piedi indolenziti. Aspettai per un po’ vicino alla pota della stanza ma lui non tornò indietro. Avevo peggiorato le cose portandolo con me a giocare a golf? Perché ero stato così egoista? Lui era malato e avrei dovuto lasciarlo in pace, da solo. Ma per un momento o due, prima che i suoi piedi iniziassero a fargli male, eravamo stati davvero felici insieme. Sapevamo questo entrambi, io e lui. Questa era la nostra identità collettiva, quello che padre e figlio dovevano fare assieme: vincere o perdere.
Noi quel giorno abbiamo perso.