houellebecqisola.jpgdi Giuseppe Genna

Inizio con una serie di riflessioni che non ambiscono ad alcun rigore. In seguito, vorrei accostare materiali a stralci del testo di Houellebecq: essenzialmente, stralci del Gordon Pym di Poe e di Petrolio di Pasolini.
houellebecq_a.jpgInizio, dunque, dalla fine.

E’ impossibile comprendere la grandezza di La possibilità di un’isola senza fare l’esperienza delle ultime cinquanta pagine del libro. La terza parte, ovvero il Commento finale – Epilogo, costituiscono una rottura, una discontinuità non solo rispetto al corpus che le precede, ma rispetto a tutta la letteratura contemporanea. Queste cinquanta pagine creano un cortocircuito totale con qualcosa che, apparentemente, non è testuale, eppure lo è – cioè, il titolo.

La possibilità di un’isola, in quanto titolo, non farebbe parte del testo, se non si trattasse di una citazione dal testo, e una citazione molto particolare: si tratta infatti del verso finale di una poesia. Questo verso detta le ultime parole prima che si passi al Commento finale – Epilogo. La poesia, del resto, non è nemmeno tale: essa è un messaggio. Per tutto il libro, le comunicazioni tra i cloni di Marie verso i cloni di Daniel avvengono attraverso messaggi alfanumerici che rimandano a immagini ed esperienze sinestesiche in forma di poesia. Le poesie inviate da Marie a Daniel (a prescindere dal numero del clone) ricordano gli haiku o, in ogni caso, strutture poetiche non appartenenti alla tradizione occidentale. Soltanto alla fine del libro emerge che, insieme alla rivoluzione esoantropologica che ha condotto al mondo dei neoumani, si è compiuta una rivoluzione stilistica, modellata sui reperti di uno stile antico, ma non letterario: le istruzioni d’uso di un dvd-videoregistratore. Da quel manuale, nasce e si sviluppa e prima o poi muore una nuova tradizione letteraria.
Tuttavia non è il verso finale di una poesia neoumana a dare il titolo al libro e a interrompere la storia per spalancare il vuoto del Commento finale – Epilogo. Si tratta infatti di una poesia di Daniel, la persona umana Daniel (Daniel1), e sono le sue ultime parole scritte prima di sparire (ma anche: di non sparire, poiché dà inizio a questa metempsicosi materiale che è la sequenza dei suoi cloni). Daniel ha già comunicato ai suoi lettori alcuni versi nel corso del suo racconto di vita. Tuttavia, la sua ultima poesia non è inclusa nel racconto di vita: questi versi vengono rivelati, come un segreto, migliaia di anni dopo, ma senza che tale rivelazione partecipi all’estetica del segreto svelato.

C’è una parola chiave nel testo di Daniel: “esitazione”. Un’esitazione che prende da subito una declinazione, poiché il verso, nella sua completezza, dice: “l’esitazione a sparire”. “Esitazione” è in realtà la parola chiave di tutto il libro e, se l’esitazione assoluta a cui Houellebecq fa riferimento può essere chiusa da un senso (un senso immissibile in una qualunque dialettica), è proprio al verso finale, cioè al titolo del libro stesso, che si deve guardare.
Se si esita, si è senza sapere. Si è sul punto di sapere o di non sapere. E’ possibile sapere. E’ possibile ragionare. E’ possibile essere nel mondo, compiere un passo. Quando si esita, magari camminando, cosa che Daniel fa in continuazione e fino alla fine e lo fa sulla sabbia, le tracce sono meno decise. L’esitazione lascia tracce meno definite perché essa è una potenza di altra natura rispetto alla definitezza e alla definizione.
L’esitazione è lo stare nella possibilità. Esitazione assoluta per stare nel regno assoluto delle possibilità, delle potenze.
L’esitazione in Houellebecq coincide con il senso profondo, ancora non adeguatamente investigato, del sapere di non sapere che Platone, da clone di Socrate, dice che Socrate disse.
Ciò che per la tradizione è tò mèllei, cioè lo “stare per” o “essere sul punto di”, è per Houellebecq l’esitazione: la porta che spalanca l’ingresso nel regno delle possibilità.

L’uomo ha paura che vivere nel regno delle possibilità cancelli il mondo. Questo è uno dei temi del libro di Houellebecq, un tema universale che non ha soluzione tematica. Essere nel mondo ma non di questo mondo è un esercizio (esercizio è il greco àskesis, da cui ascesi) che spaventa l’uomo: egli pensa che, se si fa così, se si esita, non si vive, si perde il mondo. La narrazione di Houellebecq (finita, ma infinita – esattamente come certa Scolastica asserì: “hic posuit finitum per infinitum “, che è la definizione in azione di ogni allegoria) è un esercizio di questa natura: è l’esercizio della natura. Il mondo sarà perduto, la storia si allontana dalla nostra storia, ma il problema del mondo rimane intatto. Nessuna soluzione spirituale riesce a risolverlo. Basta avere pochi rudimenti di tradizione buddhista per comprendere che Houellebecq rigetta la soluzione buddhista. Lo fa con piena legittimità, poiché il Buddha non offre la soluzione. Nel momento in cui la supposta soluzione spirituale viene rigettata – in una maniera così radicale che a mia conoscenza non esiste altro lavoro letterario contemporaneo che giunga a una simile profondità -, Houellebecq entra in una altro regno. Il mio regno non è di questo mondo: di quale allora?

Le ultime cinquanta pagine del libro compiono un’operazione di immersione nella potenza della coscienza. Ci sono molti segnali che Houellebecq dissemina fin qui e che indicano la direzione (che è l’assenza di ogni direzione) del salto finale. Il più notevole di questi segnali è il racconto dell’esperienza dell’installazione “bianco su bianco” di Vincent (il secondo fondatore dell’Elohimismo, il movimento che avrà ragione nella scommessa ridicola sul futuro – e non che avrà ragione in assoluto). Arriverò a giustapporre il finale (in realtà: il prefinale) del Gordon Pym di Poe a questa esperienza dello spazio non qualificato che Daniel compie all’interno dell’installazione di Vincent: sarà dunque chiaro che il momento penultimo del Gordon Pym è fraterno al momento penultimo de La possibilità di un’isola. E, dopo il momento penultimo, si giunge al momento ultimo: che non è ultimo.

Infatti non è un momento. Il viaggio in solitaria di Daniel25 (ma non è vero neanche questo: Daniel25 non è solo in assoluto, ci sono umani in stato selvatico, oltre a Fox) è uno spazio che si spalanca oltre l’esperienza dello spazio, solo apparentemente inqualificato, che il suo predecessore umano aveva fatto all’interno dell’installazione “spirituale” allestita da Vincent.
Come si racconta, in cinquanta pagine, che ciò che è – è? Perché questa è la verità delle cinquanta pagine del libro, che si concludono così:

Il futuro era vuoto: era la montagna. I miei sogni erano popolati di presenze emotive. Ero, non ero più. La vita era reale.

Che la vita non sia l’illusione sembra apparentemente distruggere la soluzione spirituale. Il mito di Maya, la Grande Illusione, sembra qui distrutto. Ciò è l’opera a cui invita il mito di Maya. La vita non è Illusione nel senso che non è reale. La domanda slitta indietro: che cos’è la realtà? Non che sia una domanda effettiva. L’ultima domanda è infatti: chi si chiede che cos’è la realtà, questa attività di coscienza che, per chiedersi cosa sia la realtà, deve essere consapevole di tutta la realtà e della non-realtà?

La vita finale di Daniel25 viene calcolata dal clone medesimo in uno spazio di circa altri sessant’anni a partire dall’arrivo alle pozze del mare evaporato. Una vita finale che dura sessant’anni: a che fine sta alludendo Daniel25? Può una fine durare sessant’anni? Se è così, che fine è? Una fine che dura è davvero l’estinzione del tempo? Il tempo è quindi tagliabile da una fine? E’ reale o illusorio? E in che senso? Chi ha coscienza di tutto il tempo è egli stesso assolutamente nel tempo? Se non è tutto nel tempo, dov’è? Da dove parla chi parla di Daniel25 e lo fa parlare? L’esitazione di Daniel25 coincide con una fine che dura sessant’anni? Come è stato possibile a Houellebecq raccontare così questa cosa? E’ essa una cosa? Che tipo di immaginario è questo? Come si dà rappresentazione all’irrappresentabile? L’irrappresentabile (ir-rappresentabile) esclude a priori che ci sia rappresentazione? Non esiste comunicazione tra rappresentazione e irrappresentabile? E’ noioso? E’ brutto? Non “funziona”? Non è un “finale”?

Come è possibile che hic posuit finitum per infinitum?