di Michele Pernice

lynch.jpgeraserhead.jpgNel giugno del 1972 il ventiseienne David Lynch, studente del prestigioso Center for Advanced Film Studies di Los Angeles, aveva dato inizio alla lavorazione di un progetto cinematografico che lo avrebbe impegnato per ben cinque anni. A vederlo oggi, Eraserhead, primo lungometraggio di Lynch, sembrerebbe che sia stato girato in poche giornate. Pochi ambienti, pochi attori, pochi dialoghi, una troupe composta di pochissimi elementi, un regista che all’attivo aveva soltanto quattro cortometraggi (Six Figures e The Alphabet, entrambi del 1967, poi The Grandmother, del 1970 e The Amputee, realizzato nel ’74 durante le riprese del film). In realtà in tutti gli ottantacinque minuti della sua durata, si riscontra in Eraserhead una coerenza e una continuità interne che lasciano intuire che, a dispetto dell’apparente mancanza di senso nel plot, ci sia alla base qualche cosa di profondamente personale.

scena1.jpgEraserhead è forse in assoluto il film più intimo di Lynch. Il suo autore, tuttavia, ha sempre mostrato una certa reticenza nel dare una spiegazione plausibile agli eventi raccontati nel film. Ciò è comprensibile, se si pensa che Lynch ritiene che ogni opera cinematografica viene necessariamente fruita in maniera differente a seconda dello spettatore. Secondo Lynch, non è importante che lo spettatore afferri un determinato contenuto: ” (…) Certe cose mi sembrano meravigliose senza che se ne conosca il motivo. Altre significano moltissimo per me, ed è difficile spiegare il perché. Io ho sentito Eraserhead, non l’ho pensato”. In questa dichiarazione, contenuta nel prezioso volume curato da Chris Rodley Lynch secondo Lynch, troviamo l’essenza del cinema di Lynch: un cinema fatto di impressioni, di misteriose suggestioni, di dettagli apparentemente banali, di suoni, luci e atmosfere. Un cinema che rifugge polemicamente dagli stereotipi narrativi della Hollywood dei nostri giorni e che preferisce percorrere strade diverse anche all’interno di un solo film, che vede continuamente alterato il suo punto di vista iniziale.
Eraserhead rappresenta con efficacia assoluta il primo stadio di questa ricerca. Basata su una brevissima sceneggiatura scritta da Lynch dopo avere abortito il progetto di un corto dal titolo Gardenback, la pellicola fu girata in bianco e nero a Beverly Hills, in una tenuta di proprietà dell’ American Film Institute. Non era una scelta casuale: era proprio l’AFI che si occupava di finanziare il film. Lo stesso Lynch, che di lì a un anno si sarebbe separato dalla moglie Peggy, si era stabilito nella stessa villa all’insaputa dell’AFI, installandovi uno studio di montaggio e riposando sul letto della camera di Henry Spencer, il protagonista del film. Quella camera ha significato molto per il regista. Mai come in questa occasione Lynch si è trovato ad abitare il confine spaziale tra vita reale e fantasia creativa.

scena2.jpgProvare a ricostruire una sinossi di Eraserhead non è impresa da poco. Già il prologo rappresenta la prima delle numerose astrazioni del film: siamo nello spazio. Qui assistiamo ad una serie di immagini di chiara matrice onirica: un Pianeta su cui viene sovrimpresso il volto attonito di Henry Spencer (Jack Nance), qualcuno che manovra delle leve, le immagini di un grosso spermatozoo che rimanda alla mostruosa creatura concepita da Mary X (Charlotte Stewart), fidanzata di Henry. Tornati alla dimensione reale – se così si può chiamare – scopriamo chi è Henry: si tratta di un buffo individuo che sfoggia una ridicola capigliatura all’insù e che abita in un appartamento situato in una squallida zona industriale. Invitato a cena dai folli genitori di Mary (Allen Joseph e Jeanne Bates), Henry viene a sapere, appunto, che la donna ha dato prematuramente alla luce una creatura. Mary si trasferisce da Henry, ma, stressata dal pianto ininterrotto della creatura, decide di fare ritorno alla casa paterna. Pur piantato in asso, Henry tuttavia non rimane da solo. All’interno del radiatore del suo appartamento egli immagina un piccolo palcoscenico in cui si esibisce una donna dalla pelle rovinata (Laurel Near), che, durante le sue performance canore, calpesta alcuni orrendi mostriciattoli vermiformi caduti dall’alto. Henry trova alcuni di questi vermiciattoli perfino nella cassetta della posta! Nel frattempo la creatura si ammala; Henry viene sedotto da una bella vicina di casa (Judith Anna Roberts) e i due giacciono carnalmente. Nella notte l’uomo rivede in sogno il teatrino nel radiatore; solo che stavolta ci vede pure sé stesso. Sospinta dalla creatura che sta crescendo all’interno del suo stesso corpo, la testa di Henry cade sul palcoscenico. Portata da un ragazzino in un laboratorio, la testa di Henry viene utilizzata per la fabbricazione di gommini da cancellare per matite. Risvegliatosi, Henry sopprime la creatura, provocando però la fine del mondo. eraserhead3.jpgRitrovatosi in un ambiente luminosissimo, egli ritrova la donna del radiatore. Il film si chiude sul tenero abbraccio tra i due personaggi. Il resoconto della trama, in cui traspare peraltro un forte senso dell’umorismo, non offre altro che alcuni spunti narrativi tra loro isolati e senza concatenazione logica. Non è una ricostruzione plausibile degli eventi che deve interessare. È inutile ogni tentativo di individuare un fil rouge che connetta ogni sequenza allo scopo di costruire un puzzle di genere horror. L’attenzione dello spettatore, secondo Lynch, deve riversarsi sul dettaglio. È infatti nella serie dei particolari che va circoscritto il nucleo centrale di Eraserhead, film surreale e per certi versi kafkiano. I dettagli rimandano necessariamente a qualcos’altro. Secondo Lynch, “ogni cosa dovrebbe rappresentare la chiave per qualcosa. Ogni cosa dovrebbe essere osservata. Potrebbe rivelare delle tracce”. Ciò spiega la cura meticolosa per il dettaglio che emerge dal film e, naturalmente, il fatto che la lavorazione sia proseguita per così tanto tempo. Le “cose” che vediamo nel film assumono la funzione di punto di partenza per giungere ad una – se pur vaga e soggettiva – formulazione delle astrazioni qua e là disseminate; ciò può avvenire soltanto a patto che non ci si soffermi sulla superficialità delle cose stesse. Queste, infatti, potrebbero nascondere più realtà. Il film potrebbe essere letto come un grande rebus, il cui solutore non può che essere lo stesso Henry. Sotto questa luce si può dire che Henry, che assiste con occhio clinico agli incredibili avvenimenti che lo circondano, sia una sorta di alter ego di Lynch, un uomo da sempre ossessionato dal “particolare” e dalle svariate sfumature che ne derivano.

Per dare un’ idea sommaria di ciò che si è fin qui detto, leggiamo uno stralcio d’intervista a Lynch a cura di C. Rodley:
C. R. : Cosa puoi dire del prologo di Eraserhead con l'”Uomo del Pianeta”? Evidentemente si tratta di un momento molto importante: in che modo si relaziona alla vicenda di Henry e al resto del film?
D. L. : C’entra, credimi: “prologo” sta per quello che viene prima, giusto? In quel caso è esattamente così; in effetti ciò che accade nella parte iniziale del film è importantissimo, e nessun critico ne ha mai parlato. Quel canadese, George Godwin, ha scritto qualcosa in proposito; intervistò me e Jack Nance e fece il suo pezzo. Io non ho detto più di tanto, ho solamente risposto ad alcune sue domande. Comunque in quella sequenza si verificano degli eventi che costituiscono una chiave per ciò che accade dopo. Tutto qui…
C. R. : E dunque si tratta di…
D. L. : Be’, è lì da vedere (Ride).

Si può notare come Lynch eviti di spiegare compiutamente alcuni eventi narrati nel film. Ciò che però non deve sfuggire è che ogni elemento che compone il film rimanda sempre ad un altro. Gli oggetti e i particolari obbediscono sempre a leggi più generali. Gli stessi oggetti sono composti a loro volta di particelle microscopiche sempre in movimento. La vita stessa, prima fonte di ispirazione del cinema di Lynch, è costituita dal movimento continuo di tutte queste particelle. Il regista “sente” questo movimento perenne, e il suo compito, prima ancora di stabilire le molteplici direzioni prese dalle varie particelle, è trasmettere allo spettatore questa sua “sensazione”.

Così come un oggetto è composto di infinite particelle, allo stesso modo l’irregolare ambientazione di Eraserhead è costituita da un microcosmo notturno in cui si aggira il fumo delle fabbriche e in cui rimbombano rumori di ogni sorta. Un mondo suburbano dai mille segreti in cui si aggirano operai abbandonati a loro stessi e ai loro monotoni movimenti. È come se il loro sudore evaporasse, provocando una nera pioviggine. Fumo, pioviggine e rumori ossessionanti. Tutto è in continuo movimento, poichè in questo modo si può rendere al meglio l’idea del tempo che passa. Se ci si ravvede che tale dimensione viene ricreata in maniera tanto scientifica, non può dunque sorprendere che Lynch sia tentato di esplorare anche una dimensione “fantastica”, che potrebbe rappresentare una delle tante possibili estensioni di quella fisica. Perché anche in uno spazio minimo come uno dei possibili anfratti all’interno di un radiatore possono accadere delle cose. E non importa quanto esse siano terrorizzanti.
In questa prospettiva pare che ogni inquadratura del film viva di vita propria. Non solo: chissà ognuna di esse quante altre, infinite piccole storie vuole nascondere… “Un film non è finito finchè non è finito. Può accadere di tutto, e ti rendi conto che è quasi come se le cose sapessero come andrà a finire. All’inizio puoi scoprirne alcune parti, eccitarti e innamorartene, ma le cose sanno che non ti sono ancora apparse nella loro interezza. Riuscirai a scoprire questi altri elementi? La sola maniera per saperlo è rimanere in contatto, stare in guardia e cercare di sentirli; e allora forse si riveleranno alla tua coscienza. Ma in realtà sono sempre stati lì, da qualche parte”. Lynch cerca di dare ai suoi ambienti l’atmosfera più quotidiana possibile. Ciò potrebbe sembrare un paradosso, ma non lo è: secondo Lynch la paura e il terrore sono tanto più maggiori quanto più nascono da situazioni all’apparenza tranquille e rassicuranti. In questo senso Eraserhead appare come un horror sui generis: la paura non è fine a sé stessa, poichè genera concentrazione. È di essa, che Henry ha soprattutto bisogno.
Henry Spencer, insieme al Jeffrey di Velluto blu, è dunque il personaggio lynchiano che più assomiglia a Lynch. Henry non è altro che uno di quegli emarginati che si aggirano, tormentati, in uno di quei cupi quartieri industriali urbani di Philadelphia da cui Lynch ha ammesso di aver tratto ispirazione. Solo che, come Lynch, anche Henry è un confuso ma accanito osservatore. La sua capacità di osservare oltre la superficie delle cose gli farà conoscere perfino la Donna che vive dentro al radiatore. Se nella camera di Lynch un singolare radiatore con una piccola cavità al suo interno era solito emanare un calore che procurava piacere al regista, allo stesso modo il radiatore della camera di Henry (la stessa camera) emana una lieta presenza. Un personaggio dolce e vitale, una donna dalla pelle sfigurata da un’acne caricaturale ma capace di provare amore. Prova ne è la sequenza finale, in cui il luminoso abbraccio che la lega a Henry contrasta nettamente con il buio che inghiotte i quartieri industriali e, insieme, ogni speranza.
Poi ci sono i genitori di Mary, isolati e paranoici. La madre non vede l’ora che Mary vada via di casa, quindi aggredisce Henry dicendogli di sposarla quanto prima. È ora di metter su una bella famigliola, poichè di mezzo c’è ora un figlioletto. Una creaturina fasciata per metà del corpicino, collo lungo, testolina piccola e volto appuntito, due occhi tristi che significano malattia. Sebbene Mary le dedichi le cure migliori, il male della creatura mina dal profondo la sua natura. L’atmosfera del film è tutta permeata del triste pianto del “bambino”. Un lamento continuo che arriva dall’interno della creatura stessa, dove il male si espande dalla testa alle viscere e viceversa. La creatura chiede (e ottiene) la liberazione dal suo dolore. Quando Henry decide di sezionare la creatura, essa si rivela per ciò che è: l’ involucro di un morbo in espansione, in attesa di essere liberato. Un magma di sangue, organi interni e liquami vari, che, esploso, inghiotte l’ipocrisia dei sacri valori della famiglia e della società, e con essi il mondo. Un mondo che pare voglia rifiutarsi di andar oltre gli aspetti fenomenici.
Il personaggio della creatura è forse quello che più rimane indelebile nella memoria dello spettatore dopo la visione del film. Fu a causa sua che la visione di Eraserhead venne allora tassativamente proibita alle gestanti. Dal canto suo il regista indipendente americano Buddy Giovinazzo si ispirerà, sette anni dopo, al personaggio del deforme pargoletto per la messa in scena del suo American Nightmares, piccolo ma scioccante cult-movie. Gli altri personaggi del film sono appena abbozzati: una dirimpettaia di Henry gli si rivela come una superficiale seduttrice; un barbone vede un ragazzino che porta via la testa di Henry caduta dal balcone; un omaccio riceve la testa dal ragazzino-aiutante e ne ricava i gommini per matita… sono tutti particolari, visti da angolazioni misteriose e ambigue.
Nondimeno, a chi si fosse lasciato trarre in inganno dalle atmosfere oniriche del film, come tanti hanno fatto, Lynch risponde: “Non direi che Eraserhead sia un sogno che avrei voluto non diventasse mai un film. Non è nemmeno un sogno. Ma so che questo non vale per tutti”. In altre parole, pur riconoscendo come legittima ogni interpretazione da parte dello spettatore, Lynch non considera il suo film come un “sogno” o un “incubo”. Le visioni di Henry hanno invece la funzione di mettere in rilievo le numerose astrazioni che fanno da contrappunto al film e lo frammentano, ponendosi come estensioni del reale. Secondo Lynch il cinema si fa magia dal momento in cui esso si fa portatore di un insieme di sensazioni, che, scevre della ridondanza dei dialoghi, si impongono allo spettatore come autentici campi di indagine. Di conseguenza il regista concepisce le sue immagini affinchè possano essere contemplate, così come accade per le sue numerose opere pittoriche (il personaggio della Donna del radiatore, per fare un esempio, era ispirato a un quadro dello stesso Lynch). Tale contemplazione, si badi, non deve avvenire passivamente: per conoscere il segreto dell’universo che circonda le cose bisogna avere i sensi all’erta. “È per questo che per me Eraserhead ha un valore straordinario: perché sono stato capace di sprofondare in quell’universo e di viverci dentro”.
Altra componente che non poteva sfuggire alla critica è infine l’immaginario sessuale, di cui la pellicola è permeata. Le immagini che aprono il film rimandano non soltanto al tema della nascita e del parto, ma anche a quello della sessualità (oltre al feto, vediamo stagliarsi nello spazio anche alcuni enormi spermatozoi). Assorbite nell’ambito del caos totale che ha colpito l’universo, tali simbologie finiscono per rivestire una valenza negativa e corruttrice. Nel momento in cui Henry viene sedotto dalla sciantosa vicina di casa l’aspetto più bello della sessualità, quello cioè complementare al sentimento amoroso, viene a mancare del tutto. Nella sua apparente ingenuità Henry crede di essere amato dalla donna, ma non è così. La visione “fisicizzata” del sesso, così come appare all’inizio, non può che prefigurare l’atteggiamento superficiale della vicina di Henry. Deluso da tale prospettiva, Henry allerta i sensi e, insieme alla Donna del radiatore, conosce l’amore.

I componenti della troupe si sono mostrati all’altezza della situazione. Herb Cardwell, geniale direttore della fotografia di Eraserhead, morì in circostanze misteriose durante la lunga gestazione del film. Venne comunque rimpiazzato da Frederick Elmes, un tecnico altrettanto valido. Lynch, che tornerà al bianco e nero anche col suo successivo The Elephant Man (1980), ha ammesso di aver imparato molto da Cardwell. In Eraserhead l’uso che Lynch e Cardwell fanno delle tecniche di illuminazione è polivalente. Se l’inizio del film mostra una illuminazione estremamente blanda, in cui il nero rappresenta lo spazio che tutto inghiotte, nell’epilogo si ha la sensazione di trovarsi in una dimensione ultraterrena – l’Aldilà, probabilmente – rischiarata da una luce resa ancor più accecante dall’abbraccio amoroso che lega Henry e la Donna del radiatore. Tutto ciò che segue l’inizio e precede l’epilogo di Eraserhead presenta ogni possibile sfumatura del grigio, come se la pellicola si ponesse come una scala graduale dal cupo al luminoso. Va aggiunto che primo assistente operatore del film era Catherine Coulson, non ancora la “Donna del ceppo” in Twin Peaks e allora l’ideatrice della singolare capigliatura del marito Jack Nance.
Le caratteristiche della luce hanno sempre appassionato il regista. In Eraserhead le luci esplodono, mettendo così in rilievo ogni loro scintilla. Ciò non significa che è altrimenti impossibile percepire il flusso di elettroni che costituisce l’illuminazione artificiale. Anzi, come ogni altro insieme di particelle, l’elettricità è qualcosa che vive, e che quindi può essere accolta dai sensi. L’esplosione delle luci allarma Henry, questa è la sua funzione. Dal canto suo il suono, vero marchio di fabbrica del cinema di David Lynch, era curato dall’amico Alan R. Splet. Affascinato dal cosiddetto “tono locale”, il suono cioè che si avverte senza interruzione all’interno di un contesto silenzioso o tra una frase e un’altra pronunciata dai personaggi, Lynch inserisce nel film il rumore perenne del vento, anche se, come abbiamo visto, il vero leit-motiv sonoro è costituito dai lamenti della creatura. Tale espediente è volto a rappresentare idealmente l’universo più ampio in cui è inserita una data situazione particolare. Ritroveremo tale caratteristica in ogni successivo film di Lynch.

Rifiutato dal Festival di Cannes e dal New York Film Festival, Eraserhead uscì nel 1977 grazie al distributore Ben Barenholz, specializzato in film a basso costo per i circuiti di mezzanotte. Grazie anche alla buona parola di John Waters il film ebbe un buon successo, tanto da rimanere in cartellone per ben quattro anni in un cinema di Los Angeles. Visionato da Mel Brooks, Eraserhead rappresentò per Lynch il trampolino di lancio nel sistema di Hollywood (per quanto, è bene sottolinearlo, Lynch non si è mai sentito inserito in tale sistema). Fu proprio grazie al regista di Frankenstein Junior che Lynch potè girare uno dei suoi film più personali: The Elephant Man, un’opera in cui si avverte la predisposizione di Lynch verso la diversità e la mostruosità. Tuttavia l’uomo-elefante è un personaggio di ben altra levatura umana e psicologica, se confrontata con la creaturina di Eraserhead. Questa è un’astrazione assoluta, ma non per questo è meno reale. Lynch si è sempre rifiutato di spiegare la sua provenienza. A chi gli abbia chiesto quale fosse stata la sua genesi fisica, Jack Nance ha spiegato che per quanto gli riguarda potrebbe anche essere stata una calza con un paio di bottoni. Altri sostengono che Lynch si sia ispirato alla figlia Jennifer, nata con una malformazione ai piedi. In realtà ci troviamo davanti ad un mistero, uno dei tanti che circondano il film. Dopotutto, è anche il meno interessante.

[Le citazioni sono prese da Chris Rodley (a cura di): LYNCH SECONDO LYNCH, Milano, Baldini & Castoldi, 1997]